Recensione: Life

Di Roberto Gelmi - 30 Luglio 2017 - 17:00
Life
Band: Adagio
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2017
Nazione:
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75

Si presenta con tutti i crismi dovuti la quinta uscita in casa Adagio. Il combo francese dopo il singolo “Subrahmanya” uscito in dicembre, propone un’ora di musica quadrata e magnetica, restando fedele al sound che li ha resi famosi di qui a un decennio. L’artwork è opera del conterraneo Ludovic Cordelières, il quale decide di unire eros e thanatos in una copertina, che, se non spicca per originalità, ha il merito quanto meno di restare impresso nella memoria.

Il sestetto di Montepellier non ha mezze misure, sceglie di mettere al primo posto in scaletta la title-track da quasi dieci minuti e poi una serie di brani dal minutaggio medio-lungo, per poi concludere con “Torn”, song più corta in tracklist. Dopo 90 secondi da colonna sonora, le chitarre dropped iniziano a intessere una trama sonora compatta che accompagnerà l’ascoltatore per tuta la durata dell’album. Bisogna aspettare ancora un minuto per ascoltare l’ingresso della voce di Carpenter, con il suo clean che ricorda Mark Boals. Niente d’appuntare, il refrain ha un buon tiro melodico, ma risulta anche graffiante e malinconico, in piena tradizione metal. I francesi si muovono a loro agio tra impennate sinfoniche e teatrali, suonando moderni e un minimo originali, anche se il tributo ai padri putativi Dream Theater e Symphony X è palese (sarebbe bello sentirli tutti insieme appassionatamente, insieme a Pagan’s Mind ed Evergrey). C’è spazio anche per delle parentesi solistiche gustose e il mixing della 6-corde di Stéphan Forté valorizza la bravura dello shredder d’oltralpe.
L’opener ha un finale anodino, questo non va taciuto, la seguente “The Ladder” è un’altra buona song, con alcune seconde voci e inserti di chitarra semiacustica nel finale. Si sente anche il basso in alcuni unisoni gustosi. Il singolo “Subrahmanya” è di derivazione Epica. Primi 60 secondi orchestrali, utili a proiettarci nella bella e oscura India, poi l’hit procede come un ingranaggio ben oliato, con le giuste asprezze djent e gli acuti di Carpenter. Il tributo al dio della guerra induista restituisce una fotografia esatta dello stato di salute attuale degli Adagio, una band muscolare e dotata di ottima tecnica esecutiva. Continuando su temi mistici, “The Grand Spirit Voyage” regala un bell’avvio suggestivo e poi la solita potenza, tra let ring abrasivi e doppia cassa. Il limite principale degli Adagio è una certa prevedibilità, ma la qualità dei brani non è in discussione.

A metà disco le prime impressioni su Life sono più che positive, vediamo se i restanti cinque brani cambieranno il nostor giudizio. Le linee vocali in “Darkness Machine” non sono delle più memorabili: Carpenter punta tutto su un falsetto troppo tirato, i growl dell’ospite Carl Bensley, invece, non sono niente di che (per trovare una sinergia riuscita tra questi due approcci vocali in ambito prog. meglio pensare ai Threshold di Dead Reckoning). Il violino della bella Mayline (in line up dal 2016) apre “I’ll Possess You”, una power ballad con tappeto di pianoforte e arrangiamenti sinfonici, vengono in mente i migliori Royal Hunt che furono. Apre il trittico finale “Secluded Within Myself”, brano che non spicca sugli altri, se non per delle parti di hammond nell’articolata parte solistica, che troviamo nella seconda parte di minutaggio. Vera ballad in scaletta “Trippin’ Away”, invece, trasmette emozioni, difficile spiegare perché un simile pezzo si trovi in fondo alla tracklist. Il full-length, inoltre, non si chiude in pianissimo con questa composizione fatata, ma con un ultimo pezzo terremotante: “Torn” non aggiunge nulla ai cinquanta minuti già ascoltati, il ritornello è orecchiabile, ma niente più.

Gli Adagio, dopo il mezzo passo falso di Archangels In Black, hanno composto un buon album, ficcante e coeso. La produzione va promossa, quello ancora a non convincere fino in fondo è la scarsa ecletticità del combo francese, che propone, sì, un sound particolare (lo ripetiamo, tra prog, djent, symphonic e power, ma equidistante dalla magniloquenza di casa Nightwish e dallo speed dei conterranei Stratovarius) ma resta limitato in un recinto di prevedibilità.
Di certo merita più di un ascolto attento, ma alla lunga potrebbe stancare.

Roberto Gelmi (sc. Rhamdanthys)

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