Recensione: Life Sentence

Di Orso Comellini - 29 Maggio 2013 - 18:36
Life Sentence
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Il nuovo millennio è stato caratterizzato finora da una quantità impressionante di reunion di gruppi storici o comunque di culto, da un lato, e da un’ecatombe – chi per aver condotto una vita di eccessi, chi per insidiose quanto fatali malattie incurabili – di colonne portanti dell’hard&heavy, dall’altro, tale da far finire in secondo piano, per non dire proprio oscurare, un’intera generazione di giovani metaller che un giorno, volenti o nolenti, dovranno prendere il posto di tutte quelle “vecchie glorie”, se vorranno quantomeno rimpiazzarle o dare continuità a un genere come l’Heavy Metal che, mai come oggigiorno (con le dovute eccezioni, per fortuna), vive più di grandi ricordi nella mente di molti nostalgici dei tempi che furono, piuttosto che di reali certezze suffragate da un solido ricambio generazionale. Sebbene molte di questi ritorni si siano rivelate pallide imitazioni della gloria passata, hanno finito inevitabilmente per rubare la scena a tante nuove realtà emergenti; anche se è innegabile che in molti casi il principale demerito risieda più che altro nell’incapacità a raccoglierne il testimone o nella mancanza di ambizione di queste ultime. Inutile alimentare false speranze.

Riflessioni tanto più lapidarie, quanto veritiere, quando a tornare in pista sono band tanto determinate e talentuose da far impallidire perfino nomi ben più blasonati e vari acclamati epigoni, come nello specifico caso dei Satan. Un gruppo che meriterebbe ben altro tipo di presentazione e considerazioni essendo nel novero dei pionieri e dei principali interpreti della NWOBHM, sebbene il loro fondamentale debutto sulla lunga distanza sia arrivato quando ormai quella scena aveva già sfornato gran parte dei suoi maggiori successi dal punto di vista commerciale, oltre che qualitativo. Proprio a trent’anni di distanza – periodo durante il quale i Nostri non sono di certo rimasti con gli strumenti appesi al chiodo – da “Court In The Act” (1983), il quintetto proveniente da Newcastle, fa il suo trionfale ritorno in formazione completamente originale, con il qui presente “Life Sentence”. Album che musicalmente e concettualmente – come testimonia anche la bella copertina – si propone come la naturale prosecuzione di un percorso iniziato nel lontano 1979 e interrotto nel 1987 con l’ottimo “Suspended Sentence”. Percorso ripreso sotto i migliori auspici ormai due anni orsono con la storica esibizione al teutonico Keep It True 2011 e oggi concretizzatosi a tutti gli effetti.

Cattiveria, grinta, classe cristallina e uno stile unico ed inconfondibile, rimasti tali e quali ad allora, sono le incontestabili doti che i Satan portano in seno al proprio comeback. Del resto si può affermare con ostentante sicurezza che questi cinque artisti abbiano continuato incessantemente, e senza mai perdere lo smalto, a regalare ai propri sostenitori musica e composizioni di altissimo livello con gli innumerevoli progetti che hanno caratterizzato le rispettive carriere (lascio a ciascun lettore, quantomeno per quanto riguarda i più giovani, il piacere di scoprire tutte le varie produzioni dei cinque britannici). Perciò non stupisce il fatto che siano arrivati all’appuntamento con il terzo full-length tutt’altro che arrugginiti, ma devo ammettere che “Life Sentence” supera di gran lunga tutte le più ottimistiche aspettative. Si direbbe veramente che per loro il tempo si sia cristallizzato, lasciando inalterato il fascino di un moniker forse poco conosciuto, ahimè, ma dal rilevante peso specifico.

Un trademark riconoscibile fin dalle primissime note di “Life Sentence” con la sua spiccata vena chitarristica a farla da padrone grazie al duo Ramsey/Tippins: una delle migliori coppie d’asce dell’intera scena inglese e non solo, in grado di non temere sudditanza di sorta con chitarristi intoccabili come Murray/Smith oppure Downing/Tipton; perlomeno qualitativamente se non ovviamente per quantità di dischi prodotti. Fin dagli inizi i due axeman hanno preso come punto di riferimento proprio questi ultimi (nonché i riff plumbei di un certo Tony Iommi) per sviluppare il proprio personalissimo stile, un po’ come fecero i loro contemporanei Mercyful Fate, anch’essi forti di un’altra fenomenale coppia di chitarristi (Shermann/Denner). I più attenti ascoltatori potranno facilmente rendersi conto da dove derivino, ieri come oggi, quei riff graffianti e metallici, quasi stridenti e sferraglianti, fatti di tremolo picking, bending, tapping e armoniche artificiali fischianti, che i Nostri hanno portato all’estremo, sconfinando talvolta nel thrash (e per certi versi anticipandolo, all’epoca). Quegli intrecci forsennati e muscolari che si susseguono incessanti e sfrenati con fare da solista e quegli assoli improvvisi e spiazzanti che si rincorrono senza apparente soluzione di continuità con il tessuto ritmico, che li hanno resi uno dei gruppi più oscuri e con passaggi tra i più intricati di quella specifica scena. La loro consueta verve poi si sposa alla perfezione con il gusto innato per raffinati fraseggi dal flavour orientale, talvolta persino con qualche innesto di matrice latina (ovviamente sempre dall’alto voltaggio elettrico ed adrenalinico), che impreziosiscono un song writing già di prim’ordine.

Determinante, poi, per conferire quell’aura oscura e nebulosa che da sempre li contraddistingue è tuttora il contributo dello sbalorditivo Brian Ross, con la sua voce cupa e bassa, quasi dark come impostazione, caratterizzata da un suggestivo falsetto degno di sua maestà il “Re Diamante”, usato con estrema parsimonia nei momenti chiave. Ad oggi la sua voce risulta quasi più incisiva di allora, per una maggiore maturità artistica ed è immutata la sua abilità nel comporre refrain che si stampano in testa, senza mai cadere nel campo del “facilmente orecchiabile” o dello stucchevole. A chiudere il cerchio ci pensa una solidissima e purtroppo sottovalutata sezione ritmica: Graeme English al basso e Sean Taylor alla batteria, entrambi perfettamente in grado di esaltare il gran lavoro degli altri musicisti. Il primo è davvero una componente irrinunciabile nel sound dei Satan e il suo apporto è messo in risalto dall’ottima produzione d’altri tempi (complice l’ineccepibile contributo del celebre Dario Mollo) donandogli una rotondità e uno spessore davvero fuori dal comune, caratteristica piuttosto rara di recente. Il secondo pesta come un dannato sulle pelli con il suo stile fatto di ritmi sempre incalzanti e soprattutto improvvise e ripetute rullate. Pur non essendo particolarmente dotato tecnicamente il suo è uno dei drumming più vigorosi e imprevedibili in ambito heavy metal, riuscendo sempre a dare una marcia in più ai singoli pezzi.

Inutile commentare ogni singola traccia dato che “Life Sentence” è un album che esalta dalla prima all’ultima nota senza mai stancare, neanche dopo ripetuti ascolti. Anzi, è un lavoro che cresce ad ogni passaggio nel lettore, in un viaggio che vi porterà a scoprire ogni volta un nuovo dettaglio o una soluzione particolare che durante i primi ascolti magari erano sfuggiti (data la mole di input) e che impressiona per freschezza Una vera e propria lezione, che si spera non passi inosservata, di stile e di classe, per le nuove leve che si atteggiano a paladini del genere e finiscono per essere solo delle imitazioni più o meno valide dell’originale e perfino per certi mostri sacri ultimamente troppo adagiati sugli allori. Senz’altro uno dei migliori dischi di HM classico degli ultimi anni, al quale forse si può rinfacciare solo di non avere al suo interno un brano-manifesto da antologia come poteva essere, tanto per citarne una, “Break Free”, ma sarebbe davvero cercare il pelo nell’uovo, dato che comunque si attesta interamente su livelli davvero elevati. Perciò non indugiate e fatelo vostro… e bentornati Satan!

Orso “Orso80” Comellini

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