Recensione: Light

Di Carlo Passa - 2 Ottobre 2014 - 9:00
Light
Band: Veni Domine
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2014
Nazione:
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75

Formatisi nel 1989, gli svedesi Veni Domine riscossero un discreto successo con i primi due dischi (Fall Babylon Fall, del 1991, e Material Sanctuary, del 1994), inserendosi a dovere nel filone prog-metal che in quegli anni faceva da baluardo al debordare distruttivo del grunge.
Nel corso di più di due decenni, la band ha continuato a sfornare prodotti di buona qualità (raggiungendo il picco con Spiritual Wasteland, del 1998), senza però smuovere recensori e fan come nei primi tempi. Come detto, i Veni Domine suonano prog-metal e, in particolare, una sua incarnazione fatta dell’incontro tra i Candlemass più riflessivi, i Pain Of Salvation meno cervellotici, certe atmosfere plumbee dei Fates Warning di metà carriera e i Queensryche del periodo tra Empire e Promised Land. Sono soprattutto questi ultimi a saltare alla mente, in virtù delle molte soluzioni melodiche davvero a la De Garmo e della splendida voce di Fredrik Sjöholm, che richiama il Tate più melanconico con una spruzzata di Ray Adler.
Suonato con gusto, arrangiato senza sbavature, prodotto come si deve, Light include pezzi che godono di una scrittura di livello, che rivela tutta l’esperienza che la band può mettere in campo. Il limite del disco sta in una certa ripetitività e nella conseguente sensazione di noia, che può affaticare l’ascoltatore, rendendo ardua la sopravvivenza del disco oltre i primi ascolti.
Per carità, In Memoriam e Farewell sono ottime canzoni e Hope fa rimpiangere i giorni belli dei Queensryche di vent’anni fa: sembra proprio di ascoltare un outtake di Promised Land. Ecco: il richiamo continuo al modello della grande band di Seattle non giova ai Veni Domine, benché possano vantare una lunga militanza che certo non li fa degli improvvisati.
Where The Story Ends è più personale, seppur cristallizzata nel 1993. Egualmente Last Silence Before Eternity, forse la più aggressiva del lotto, pur non brillando per particolare originalità, sfoggia alcune soluzioni di pregio che, finalmente, portano nel disco un dinamismo davvero interessante.
The Hour of Darkness non lascia il segno, così come Waiting. Entrambe formalmente perfette, sembrano mancare di mordente, risultando piuttosto noiose e, sostanzialmente, trascurabili.
E poi arriva Oh Great City 2014, che è la riproposizione del medesimo pezzo presente sull’esordio del 1991. Se è indubbio che la nuova produzione, immensamente migliore di quella dei tempi di Fall Babylon Fall, valorizza la canzone, che è un gioiello minore del prog-metal, va detto che l’atmosfera ne risente in negativo, perdendo quell’aura magica che i suoni di tanti anni fa veicolavano. Non si tratta di puro passatismo o nostalgia del tempo che fu, quanto di constatare che certe canzoni valgono proprio in quanto pubblicate in un certo momento e con un certo suono. Riproporle imbellettate di una produzione scintillante rischia di farle figurare come certe vecchie signore che hanno esagerato con il lifting. Abbiamo tutti presente la recente, triste versione aggiornata di Kings Of Metal, che speriamo di dimenticare presto. I Veni Domine trattano Oh Great City con un gusto ignoto ai Manowar, ma credo che avrebbero fatto meglio a lasciare il pezzo dove è sempre stato.
Light merita un ascolto, perché contiene musica di qualità, proposta da una band valida che, pur nella propria natura derivativa, ha piena cittadinanza nello stato attuale del prog-metal. Se un ascolto non va negato, non posso, tuttavia, garantirvi che tornerete frequentemente a ripeterlo.

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