Recensione: Light Of Dawn

Di Roberto Gelmi - 6 Agosto 2014 - 14:10
Light Of Dawn
Band: Unisonic
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2014
Nazione:
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82

Esce con i migliori auspici il secondo capitolo Unisonic, all’inizio di un anonimo agosto e nell’anno della quarta consacrazione mondiale della Germania, calcisticamente parlando sia chiaro, non per un inattuale Quarto Reich.
Il gruppo guidato da Michael Kiske sfoggia una copertina, ancora opera di Martin Häusler, che ripresenta l’astronave del debutto di due anni fa, ma in chiave fantasy e con colori caldi, agli antipodi di quelli sfoggiati nel 2012.
Dunque, positività fin dall’inizio (come da volere del cantante ex-Helloween) aspetto che, insieme alla buona prova data nell’EP For The Kingdom, invoglia subito all’ascolto del disco.

Dopo l’immancabile intro, suggestivo perché “avantasiano”, con in più un fastoso stacco di pianoforte, “Your Time Has Come” attacca veloce, con batteria in stile power. Kiske vola su registri alti nel refrain trascinante, che è un invito alla libertà («Out of the dark – into the light / Out of the iron cage»), con controcanti in perfetto stile anni Ottanta. La sezione strumentale a metà brano ha echi maideniani, l’assolo di chitarra è arioso, poi viene una parte à la Gamma Ray, seguita da una stacco semiacustico. Il finale, bombastico, chiude un opener che merita applausi.
Uno dei difetti di Unisonic era senza dubbio una mancanza di eclettismo da parte del combo tedesco: con “Exceptional” i nostri tentano di stupire con un brano catchy dal testo ammiccante. Aperto da un ostinato gustoso di basso, opera di Dennis Ward (che ha anche mixato e prodotto l’album, come nel 2012), il pezzo presenta un ritornello esile, fitto di allitterazioni, che prevede un climax, reso magnetico da Kiske (sugli scudi anche con un acuto tenuto in sfondo). Si salva (?) il finale smagato: «And I can be exceptional, sensational for you / And I could be acceptable, expendable to you / Yes I can be exceptional, invincible for you / But I might be delusional; pretending all I do».
For The Kingdom”, come già detto nella recensione di maggio, è tra i migliori brani del platter. Un pezzo quadrato e godibile, una hit power, che ha meritato la visibilità del singolo omonimo.
Inaspettato cambio di atmosfera, invece, per l’attacco di “Not Gonna Take Anymore”, su lidi hard rock, o, meglio, vicini ai Queen (Kiske non ha mai negato la sua venerazione per Freddie Mercury). Non mancano, tuttavia, ritmiche metal, arrangiamenti di tastiera un pizzico oscuri e un assolo a mille di Hansen. La seconda parte della traccia diventa, per alcuni istanti, ansiogena, giusto il tempo di rinvigorire il refrain, che, dal contrasto, risulta ancor più solare. Ultima nota, i testi in qualche caso evocano le glorie del passato: «The walls of Jericho [il debutto degli Helloween dell’85] came tumbling down / Goliath [“Giants” da Chameleon?] stood to meet his fate / There is a way for jusice to be served / It begins with believing, believe [“I believe”, sempre dall’album del ‘93] in yourself».
Kiske impressiona sempre per duttilità vocale, oltre che per il suo range: all’inizio di “Night of the Long Knives” (nell’ottantesimo anniversario dell’epurazione hitleriana che interessò i capi delle SA) inizia su toni bassi, poi regala un acuto dei tempi d’oro, l’unico da brividi del platter. Il ritornello è simil Place Vendome, non originale, ma è quello che ci si aspetta dagli Unisonic. Sempre più che discreti i dialoghi chitarristi tra Hansen e Meyer: la loro abilità dona sempre quel quid che dà senso al singolo brano di turno.

Altro buon pezzo, “Find Shelter” presenta una prima strofa quadrata, qualche virtuosismo e Kiske stupisce sul finale di ritornello. Al quarto minuto i tempi rallentano e le linee vocali si adagiano su registri cullanti. Una composizione con un buon eclettismo e un grande assolo di chitarra: mutatis mutandis potrebbe comparire in un album dei Primal Fear o di Timo Tolkki. Notevoli anche i testi di un paio di strofe consecutive: «Out in the open with fear of the dark / The journey is futile but still we embark / Exit the madness; leave distress behind / Enter perception, a new state of mind / Beliefs become the thoughts of many / The thoughts turn into words / The words turn into actions and / The actions are absurd, so absurd».
Ballad prevedibile in scaletta, “Blood” inizia mesta ed elegiaca, poi cresce ma non convince più di tanto, colpa anche delle liriche troppo accorate («And your heart is singing / the heart is bringing all we need to know / […] There is no one forgotten by GOD / And no soul without light») da disco solista targato Kiske.
Abbellimenti in apertura di “When the Deed Is Done”, un mid-tempo discreto, che scorre sollazzevole. Si fanno notare gl’inserti acustici di chitarra e un basso traghettante, oltre che un bridge “dualista” («It’s a battle of will / between conscious and righteousness»). Non manca nemmeno una connotazione mimetica: il brano, con il suo incedere compassato, trasmette effettivamente l’agio di una situazione “a fatto compiuto”, però manca una trovata graffiante.
Il disco riprende carattere con l’avvio greve di “Throne of the Dawn” e il suo prosieguo bluesy, con qualche licenza accentuativa («darknèss») dettata dalle cadenze ritmiche, e temi cavallereschi come in “For The Kingdom”. L’acuto finale di Kiske, francamente, andava evitato nella sua fiacchezza.
Siamo in chiusura di platter. La breve “Manhunter” attacca come un brano dei Maiden più edulcorati, poi prosegue lineare, con un testo facile facile, inneggiante una fantomatica virago a caccia di bei partiti («She says you’ll see that I’m your woman»).
Tinte soffuse per la conclusiva ballad “You and I”, sorta di “Your Turn” con meno acuti. I testi sono un invito all’unione feconda, che va oltre la tristezza dell’eterno ritorno dell’uguale (quest’ultimo, tema già toccato dalla pazza e geniale “Rise and Fall” delle zucche d’Amburgo): «There is sadness, there is madness / So we must come together, you and I / […] What goes up, it must come down / It’s an endless cycle, we all go round and round […] But to start again we must admit what we’ve become».

Come non spendere due parole d’elogio, infine, anche per quanto riguarda le bonus track? “Judgement Day” trasuda radiosità (il vero filo conduttore dell’intero album), così la corta e cadenzata, ma nient’affatto pleonastica, “Dare” (pezzo per il mercato nipponico) convince e suona vicina al classico “Time to Break Free”.

Per tirare le somme, Light Of Dawn è un valido prodotto e bissa la qualità del self-titled predecessore. Ci sono ottimi brani (“Your Time Has Come, “For the Kingdom”, “Night of the Long Knives”), altri brillano meno (“Exceptional”, “Blood”); manca all’appello, altresì, un duetto vocale Kiske-Hansen (com’è stato in “King for a Day” e nei Gamma Ray), ma la scaletta non lascia insoddisfatti e i ritornelli sono sempre orecchiabili.

Gli Unisonic non suonano né AOR, né metal tout court: per questo sono vicini alla proposta musicale dei cugini Place Vendome (in cui militano Kiske, Ward e Werno), ma con qualche impennata in più verso lidi power. Kiske, si capisce, non tenta più di eguagliare le prove degli Eighties, limitandosi saggiamente e  con risultati pregevoli. Resta tuttavia il fascino da nostalgia act: tutti aspettano che sfoderi un suo acuto memorabile e così non è (se si esclude quello corrivo in apertura di “Night of the Long Knives”).
Per questa volta meritano un altro voto positivo, ma ormai l’effetto sorpresa è svanito, sappiamo cosa aspettarci da loro, e poi ci sono i più navigati Place Vendome a fare concorrenza… Aspettiamo volentieri gli Unisonic a ottobre in Italia, insieme agli Edguy di Mr. Sammet, però qualche trovata innovativa e un maggiore impegno di Kiske saranno imprescindibili per il futuro del gruppo.
 

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

 

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