Recensione: Lionheart

Di Filippo Benedetto - 26 Settembre 2004 - 0:00
Lionheart
Band: Saxon
Etichetta:
Genere:
Anno: 2004
Nazione:
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69

Tornano i Saxon con la loro ultima fatica, “Lionheart”: un album molto atteso dai fans e dagli estimatori di un pezzo di Storia dell’Heavy Metal.  Senza perdermi in prologhi inutili andrò direttamente “al punto”, ovvero la recensione del contenuto dell’album.

Si parte con “Witchfinder General” ed è subito un riffing potente, sostenuto da un drumming efficace, a farla da padrone. Il pezzo è decisamente spiazzante, non si era mai sentito un brano così inusuale nella discografia dei Saxon e non solo per l’apporto dell’ex Stratovarius Jorg Michael. E’ proprio il lavoro svolto da tutti i membri della band a diversificarsi, non poco, dalla classica impostazione a cui il combo ci aveva abituati. Confesso che mi ci è voluto più di un ascolto per digerire questo brano, digestione che ancora deve concludersi a buon fine (per la verità). Si passa a “Men and machine” e questa volta la potenza del riffing viene convigliato lungo linee melodiche più “coerenti” e meno spiazzanti per l’ascoltatore. Il risultato stavolta è più convincente che nel precedente brano, mostrando il tentativo da parte della band di innovare il proprio sound senza eccessivi stravolgimenti. Discreto l’assolo, eseguito con gusto per l’armonia. Dopo una breve piece strumentale della durata di poco più di un minuto, lieve e suadente ci imbattiamo nell’ascolto della song più riuscita di tutto l’album: “Lionheart”, la title track appunto. Qui i fans dei Saxon non potranno rimanere delusi, dato che la song in questione si sviluppa in un perfetto equilibrio di aggressività, potenza e accattivante armonia. Molto ben costruite le ritmiche, con accelerazioni e decelerazioni che non possono non conquistare piacevolmente l’orecchio. Sicuramente questo brano in sede live acquisterà ulteriore impatto sull’audience (come non resistere al bel refrain che intona “Lion… lion… lionheart.. defender of the faith!”). Proseguendo nell’ascolto, la seguente “Behind the grave” cambia decisamente sonorità ed atmosfere privilegiando melodie cupeggianti. Le chitarre, in apertura, sono molto effettate, cullando l’ascoltatore con morbidi arpeggi, per poi lasciare spazio ad un’improvvisa esplosione di riffs distorti molto “corposa” per quanto riguarda il sound che per ciò che concerne l’impostazione tecnico strumentale. Le linee melodiche del brano comunque sono sufficientemente accessibili e il refrain si stampa facilmente in mente. Sarà forse per questo che la band ha deciso di utilizzare questo pezzo come singolo apripista del platter (a modesto parere del sottoscritto se Byford e soci avessero fatto cadere la scelta su “Lionheart” avrebbero compiuto una scelta più azzeccata). Con la sesta track, “Justice”, i nostri induriscono nuovamente il sound e si lanciano nella costruzione di un riffing duro ed “ermetico”, sostenuto dal drumming efficace di Michael (che in alcuni passaggi aggiunge parecchio “del suo” con martellanti sottolineature per “doppiacassa”). Il muro di riffs serrati viene spezzato dal refrain di più melodica accessibilità e dall’assolo che diversifica un po’ lo svolgimento del brano. “To live by the sword” sviluppa il proprio punto di forza su una serie di riffs veloci, ritmati da un’incalzante sezione ritmica. Confesso che sono rimasto spiazzato e un po’ amareggiato dal fatto che l’ascolto di questo brano non abbia aggiunto molto rispetto al discorso intrapreso dal precedente pezzo. Certo, la bravura dei Saxon nella costruzione dell’architettura melodica del pezzo è fuori discussione, ma una discontinuità così forte rispetto al classico songwriting del gruppo (a modesto parere del sottoscritto) rischia di lasciare imbarazzo nell’ascoltatore. Fortunatamente con l’ascolto della successiva “Englishman O War”, preceduta da un’altra breve piece strumentale (acustica e impostata su melodie classicheggianti), si ha la possibilità di assaporare in più di un passaggio la vecchia (e grande) maestria compositiva del gruppo. Salvo qualche cedimento verso sonorità “moderniste” (sparse per la verità un po’ in tutti i brani dell’album), il brano scorre abbastanza piacevolmente nel lettore, dando in pasto all’ascoltatore una manciata di riffs “heavy” di buona fattura. Il disco sta lentamente volgendo alla fine e con la decima “Searching for Atlantis” la band concentra l’attenzione dell’ascoltatore su un mid tempo dove il riffing costruisce temi melodici cupi e ossessivi. Il riff fondamentale del pezzo, costruito su “pennate” molto ritmate qui si alterna ad aperture armoniche che “dilatano” il tema principale della song. Qua e là si ode l’eco della band che fu, del classico sound del gruppo e se non fosse per la ripetività quasi ossessiva del tema fondante (con quel riffing “grattugiato”) sarebbe stato sicuramente un pezzo più interessante. In chiusura “Flying on the edge” si sviluppa il suo punto di forza ancora una volta su un riffing pesante e votato ai tempi medi. Il drumming cadenzato sottolinea puntualmente questa pesantezza d’insieme, svolgendo il proprio ruolo in maniera puntuale. Una differenza rispetto alla traccia precedente, tuttavia, la si può riscontrare nell’irrompere, a metà brano, di una parentesi più melodica costruita su un arpeggio morbido (senza overdrive) e abrasivo.

Mentre ho finito di scrivere questa recensione sta scorrendo per la quarta volta nel mio lettore “Lionheart”. Annunciato come “il più potente disco che la band abbia mai scritto” (parola di Biff Byford), effettivamente al sottoscritto ha dato più di un’impressione a tal proposito. La produzione privilegiante suoni potenti e “corposi”, il riffing serrato e deciso, le vocals in alcuni episodi molto graffiante, in effetti, lasciano chiaramente intendere l’intenzione da parte del combo britannico di colpire l’ascoltatore con un lavoro di forte impatto sonoro. Queste le prime impressioni positive. Il punto debole, il “tallone d’achille” di questa nuova fatica però, a parere del sottoscritto, è l’eccessiva disomogeneità del prodotto nel suo insieme che relega l’album in una zona di confine tra due estremi di giudizio: a metà strada tra il “clamoroso passo falso” e il “gran bell’album”. A voi la scelta tra i due “estremi”.

Tracklist:
1. Witchfinger General
2. Man And Machine
3. The Return
4. Lionheart
5. Beyound The Grave
6. Justice
7. To Live By The Sword
8. Jack Tars
9. Englisch Man’o’war
10. Searching For Atlantis
11. Flying On The Edge

Line Up:
Biff Byford (vocals)
Paul Quinn (guitar)
Doug Scarratt (guitar)
Nibbs Carter (bass)
Jörg Michael (drums)

 

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