Recensione: L’Isola Che Non C’è

Di Stefano Ricetti - 10 Dicembre 2020 - 0:30

In un’epoca di piena rivisitazione del passato, basti pensare alla miriade di riedizioni di album, alla pubblicazione di anniversary edition una dopo l’altra e alla ripresa, in più settori, compreso il merchandising, di concetti, immagini e stereotipi del bel tempo che fu, non può generare più di tanto stupore l’ultima uscita discografica della Minotauro Records.

Quello che invece intriga, e parecchio, è il contenuto della stessa. Praticamente da sempre il culto legato al mondo Death SS ha generato una pletora di veri e propri adepti, persone appassionatissime che non mancano di approfondire tutto quanto sia possibile riguardo il combo fondato da Steve Sylvester e Paul Chain in quel di Pesaro nel 1977.

L’Isola Che Non C’è è un’uscita inedita (quantomeno in doppio vinile) in edizione limitata a 310 esemplari che propone il concerto tenuto dal Paul Chain Group il 10 aprile 1982 in quel di Rimini, precisamente presso il locale L’Isola Che Non C’è, per l’appunto. Il prodotto, oltre che sul sito della Minotauro Records, sarà acquistabile solamente nei negozi di dischi “veri” e non sarà disponibile sulle piattaforme dell’e-commerce usuali, quelle che tante vittime, commercialmente parlando, stanno mietendo giorno dopo giorno.

Qualche cenno storico per inquadrare il periodo e la band: Paul Chain e Claud Galley, rispettivamente chitarrista e bassista dei Death SS, nel 1981 decisero, con il benestare del cantante Steve Sylvester, di formare un nucleo musicale che si discostasse totalmente dalla band madre, sia a livello di stile che di approccio. In quel periodo i Death SS si stavano scontrando con l’ostracismo dei vari locali del centro Italia nei confronti della loro proposta. Il fatto di essere potentissimi a livello di immagine e particolarmente estremi in sede live (inondare di frattaglie decomposte di bassa macelleria, vermi e sangue il pubblico e i vari arredi non deponeva di certo a loro favore) determinava un vero ostacolo per poter fissare dei concerti.

Anche a seguito di questa situazione Paul Chain e Claud Galley virarono verso un nuovo progetto, che non vedeva Sylvester coinvolto in nessun modo. Reclutarono Thomas Hand Chaste (qui sua intervista), un batterista conosciuto tramite un amico comune e in quel momento prese inizio il Paul Chain Group. Chaste, dopo aver sostenuto una prova, entrò nello stesso momento sia nella nuova realtà che nella band madre, i Death SS.

Il Paul Chain Group non prevedeva alcun trucco di scena e piena libertà stilistica, in pochi mesi il trio Chain/Galley/Chaste allestì un vasto repertorio di pezzi inediti che consentì loro di potersi esprimere anche dal vivo su di un palco.

Grazie all’organizzatore Franco Fattori (RIP), un deejay molto noto (Radio San Marino, Controradio Firenze, Aleph Club e Slego Club) e legato ai Death SS, il Paul Chain Group tenne un concerto a Rimini, nell’aprile del 1982.

L’Isola Che Non C’è è la testimonianza su vinile di quella magica notte. Thomas Hand Chaste, nel suo studio, si è occupato di rendere fruibile il contenuto registrato a suo tempo su musicassetta (direttamente dal mixer del locale) di quel concerto e il risultato tangibile è rappresentato dai dodici pezzi racchiusi nei due vinili Minotauro, molti dei quali, poi, compariranno nei dischi successivi usciti all’interno della sterminata discografia facente capo a Paul Chain nelle sue varie declinazioni.

Gustarsi quanto fuoriesce dai due trentatré giri equivale a fare un viaggio a ritroso nel tempo, quando la mannaia di Paul Chain alternava suoni polverosi a fendenti provenienti dalla fucina del Dio Vulcano. Ovviamente la resa sonora è quello che è, Thomas Hand Chaste non poteva operare dei miracoli sul materiale originario ma soprattutto intaccare il magico mood retrò di quei momenti, che deve rimanere intatto nella sua sacralità. L’Isola Che Non C’è è a tutti gli effetti una testimonianza, nulla di più ma anche nulla di meno, avviluppata in un packaging di qualità, essenziale ma potentissimo: all black, nessuna foto e note ridotte all’osso, a mo’ di epitaffio.

Un concentrato di musica sperimentale declinato lungo dodici allucinate stazioni, fra i mugugni in fonetico di Paul Chain, una sezione ritmica bella massiccia e rimandi che conducono all’heavy metal, al doom, all’elettronica, all’utilizzo di echi, il tutto ammantato da un poderoso magnetismo di fondo. Nel 1982 non se ne sentiva molta di roba del genere, in giro…

 

Stefano “Steven Rich” Ricetti      

 

 

 

 

 

 

 

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