Recensione: Living the Dream

Di Marco Donè - 19 Ottobre 2018 - 0:01
Living the Dream
Band: Slash
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2018
Nazione:
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70

Ed eccoci qui a parlare del quarto disco solista di Slash, il terzo con alla voce Myles Kennedy, una delle due ugole più belle uscite nel nuovo millennio (Chi è l’altra? Ovviamente David Draiman dei Disturbed n.d.r.). Slash e Kennedy non hanno sicuramente bisogno di presentazioni, tanto che entrambi possono essere considerati come assolute icone del panorama rock internazionale, ognuno a modo suo. I Nostri ci avevano lasciato quattro anni fa con il buon “World on Fire” e dopo un periodo intensissimo, Slash con i Guns N’ Roses, Myles Kennedy con gli Alter Bridge e il suo debutto solista, uscito nella prima parte dell’anno corrente, trovano il tempo di pubblicare una nuova fatica sulla lunga distanza, “Living the Dream”, lavoro in cui ci addentreremo in queste righe.

 

Il moniker Slash feat. Myles Kennedy & The Conspirators fa così ritorno, e lo fa con la stessa squadra che tante gioie ha saputo regalare ai propri fan. Ecco quindi che ad accompagnare i due protagonisti principali vengono confermati Todd Kerns al basso e Brent Fitz alla batteria, mentre entra a far parte ufficialmente della famiglia Frank Sidoris alla chitarra ritmica, che fino a questo momento aveva accompagnato la band in sede live. Anche in questa occasione, come già successo in “World on Fire”, la cabina di regia viene affidata alle sapienti mani di Michael “Elvis” Baskette, per un risultato di assoluto livello, con un suono curatissimo, caldo e potente, come lecito attendersi da un lavoro nato da nomi di tal caratura. “Living the Dream” prosegue il percorso messo in atto dai Nostri con i precedenti capitoli “Apocalyptic Love” e il già citato “World on Fire”, proponendo una miscela rock accattivante, che in più di qualche occasione viene intervallata da tracce che strizzano l’occhio alla classifica e alla dimensione mainstream, senza però snaturare l’attitudine “stradaiola” della band. Il disco ci regala quindi delle canzoni cariche di adrenalina, che ci riportano ai bei tempi andati, come l’opener ‘The Call of the Wild’ o l’esplosiva ‘Mind Your Manners’, caratterizzate da una batteria incalzante, il peculiare stile chitarristico di uno Slash in forma strepitosa e dalla voce di un Myles Kennedy che, nonostante lo scorrere del tempo, sembra guadagnare sempre maggiore fascino. L’altro lato del disco, quello mainstream, più catchy, se preferiamo chiamarlo così, è rappresentato da canzoni come ‘Slow Grind’, il capitolo meno ispirato del lotto, ‘Read Between the Lines’, o dalle ballad ‘Lost Inside the Girl’ e ‘The One You Loved Is Gone’, classico singolo scala-classifica ma dotato di una bellezza e delicatezza uniche. Proprio quest’ultima considerazione ci permette di spiegare in maniera più dettagliata quanto detto solo poche righe sopra. Nonostante i Nostri non abbiano mai nascosto la voglia di aprire verso sonorità mainstream, in modo da poter coinvolgere una più ampia platea di ascoltatori, Slash, Myles Kennedy e i The Conspirators non hanno mai tradito la loro radice e matrice rock, creando un ibrido vincente, che con tutta probabilità non dirà nulla di nuovo ma che funziona tremendamente bene. Tanto più se il piatto viene poi arricchito da canzoni come ‘Serve You Right’, che nell’assolo e nel suo incedere riporta alla mente qualcosa degli Aerosmith periodo anni Ottanta, o le rockeggianti ‘My Antidote’ e ‘Boulevard of Broken Hearts’.

 

Living the Dream” si rivela così un disco sincero, carico di melodia e tanta energia positiva, pronto a far divertire. Come dicevamo, non inventerà nulla di nuovo e i suoi cinquanta minuti abbondanti regalano alti e bassi, ma come successo per i due precedenti capitoli in cui Slash e Kennedy hanno unito le forze, il prodotto è talmente vincente, vario e coinvolgente, strutturato in maniera oculata, con l’ordine delle canzoni tutt’altro che casuale, che una volta arrivati alla fine risulta impossibile resistere al desiderio di ricominciare l’ascolto, il tutto frutto dell’esperienza e della classe dei nomi coinvolti. Ed è proprio questo aspetto che fa chiudere un occhio sui momenti meno ispirati o quelli più easy listening, tanto che la prima frase a venire in mente ad ascolto finito è «Sì, okay, è vero, qualcosa poteva essere curato meglio, ma il disco funziona ed è figo» e il nostro “ditino” si avvicina al lettore, pronto a premere nuovamente il tasto “play”. Un album da non sottovalutare, fatevi sotto, rocker.

 

Marco Donè

 

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