Recensione: Long Night’s Journey Into Day

Di Roberto Gelmi - 5 Agosto 2018 - 12:11
Long Night’s Journey into Day
Band: Redemption
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2018
Nazione:
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75

I Redemption fanno sette e a due anni da The Art Of Loss, propongono altri 75 minuti di puro heavy metal progressivo, trademark che abbiamo imparato a conoscere a menadito. Questa volta a incuriosire un minimo l’ascoltatore è la presenza in line up non più di Ray Alder (Fates Warning), ma del vichingo Tom Englund (Evergrey), rincalzo eccellente per la band losangelina, che partorisce un concept album arricchito dall’artwork a firma del connazionale Travis Smith (autore delle più belle cover degli Opeth). Quando si ascolta un disco dei Redemption si sa a cosa si va incontro, riff micidiali, ritmiche serrate e voce pulita.
Tutto questo è presente nell’opener: “Eyes You Dare Not Meet in Dreams” inizia scoppiettante e con le ritmiche chirurgiche di Nick Van Dyk; non mancano parti di batteria sopra le righe (min. 2:25), un assolo della 6-corde da manuale e una lunga citazione dei Dream Theater (confrontate il min. 3:35 con Octavarium). Spiccato approccio melodico in “Someone Else’s Problem”, altra cavalcata heavy con ottime linee di basso ed Englund che canta in modo controllato ma sempre emozionante.
La macchina perfettamente oliata dei Redemption continua inossidabile a macinare note, in arzigogoli sonori prevedibili, con “The Echo Chamber”: otto minuti di prog. metal che ci riporta agli anni Novanta, complici l’uso di sample e la ricerca di un purismo scevro da innovazioni djent e affini. Le tastiere compaiono ma sempre in seconda battuta rispetto al guitarwork. “Impermanent” è una killer song che non dà respiro, con assoli chilometrici e tutta la potenza che contraddistingue la band losangelina. Per rifiatare occorre passare al primo minuto di “Indulge in Color”, con maggiore varietà di dinamiche e gl’inserti orchestrali di Ron Fish. Un oscuro riff semiacustico apre “Little Men”, una colata di metallo da headbanging assicurato (ascoltare la 7-corde al min 1:21 e dite se riuscite a trattenervi). Segue il pezzo più corto in scaletta, “And Yet”, ballad elegiaca con un Englund da brividi e prima parte con tappeto di pianoforte. Una perla che tonifica prima dell’ultima mezzora dell’album. “The Last of Me” vede Chris Quirarte sugli scudi alla batteria (credendosi forse Portnoy?), il quale si ripete in “New Year’s Day”. La lunga titletrack è la summa dell’album e della costanza compositiva dei Redemption, che alternano momenti al fulmicotone ad altri meno tirati, con la voce di Englund sempre a uniformare il tutto. “Noonday Devil” è il demone meridiano che chiude il platter, dopo più di un’ora possiamo dirci sazi.

Long Night’s Journey into Day conferma le doti tecniche dei Redemption e al contempo la loro dedizione a un genere musicale monolitico. Ogni canzone è arrangiata e granitica al punto giusto, senza contare la presenza di ospiti illustri come Chris Poland e il nostro Simone Mularoni; il sound è quello canonico, impregnato di malinconia a tratti rischiarata dagli assoli di chitarra simili a raggi di sole salvifici. Rimane la solita perplessità relativa all’eccessiva lunghezza del full-length. Dopo la prima mezzora si è già saturi di note e qualche momento con bpm ridotti avrebbe giovato maggiormente. Englund canta bene, ma non eccelle, deve ancora trovare il giusto spazio all’interno della band. In definitiva, uno dei midsummer album d’ascoltare insieme al disco solista di Michael Romeo, già collaboratore dei Redemption (insieme a Jason Rullo, compagno di viaggio dei Symphony X) e il Live over Europe dei Fates Warning.

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

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