Recensione: Lost

Di Mauro Gelsomini - 20 Ottobre 2002 - 0:00
Lost
Band: Elegy
Etichetta:
Genere:
Anno: 1995
Nazione:
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86

“Lost” è il terzo album degli Elegy e l’ultimo con il cantante danese Hovinga, con la dipartita del quale, essi diventeranno sostanzialmente la “The Ian Parry Band”.
Mentre il nome della band evoca immediatamente l’immaginario dark peraltro confermato dalle liriche, musicalmente ci troviamo di fronte ad un prog melodico spesso energico e frizzante.
Di sicuro il disco segna un miglioramento rispetto al precedente “Supremacy”, che soffriva un po’ la mancanza di quella eterogeneità presente e portante in “Lost”.
Ciò che nel prog risulta spesso d’ostacolo alla riuscita di un prodotto, è la mancanza di orecchiabilità nelle linee vocali: le linee di Hovinga, stagliate su frequenze molto alte, e a volte un po’ stridule, si adattano ottimamente alle richieste della musica degli Elegy, anche se questo limita un po’ il singer. Il riffing è confezionato su misura, creando un sound straordinariamente chiaro.
Non mancano, come accennato, ornamenti progressivi: alcune tracce danno l’impressione di essere state costruite intorno a ossature tipicamente Dream Theater, per cui si alternano minacciosi cambi di tempo che non possono far altro che porre stabilmente l’etichetta di prog metal al lavoro in questione. Tuttavia, dietro lo spunto più progressivo c’è la ricerca di una melodia che può, senza esagerazioni, essere paragonata perfino all’AOR.  
A volte queste melodie sono nascoste a tal punto che è difficile notarle, mentre più spesso fluiscono liberamente librandosi sulle ritmiche, contribuendo a marchiare la band con l’etichetta di “pop progressive”. Forse l’unica band a cui è possibile paragonare gli Elegy di “Lost” è rappresentata dagli “Eternity X” del periodo “Zodiac”.

L’album si apre con il ronzio delle chitarre della titletrack, in cui gli ostentati tecnicismi coprono a tratti lo screeching di Hovinga, anche se questo tende ad emergere con grande irruenza. Particolarmente interessante per i progster la sezione centrale della song, dove percussioni e chitarre si dànno battaglia a formare un imponente sfondo strumentistico sondato attorno alle alte frequenze scelte per il sound dell’album. Probabilmente si tratta della canzone più rappresentativa.
Introducono “Everything” sintetizzatori d’organo e tastiere, sorretti da chitarre filtrate che roteano come mulinelli in un mid-tempo, con la voce che si alterna tra un tubare sordo e profondo e il più standard high pitched. L’apprezzamento più grande che posso fare a un disco del genere riguarda la sua grande scorrevolezza: nonostante le ritmiche davvero particolari non c’è soluzione di continuità. Tutto procede con grande naturalezza e sfocia, neanche a farlo apposta, in un super ritornello dalle tinte romantiche care all’ AOR e, in particolare, agli stessi Elegy (“Take My Love”).
Si prosegue con il dissoluto tambureggiare di “Clean Up Your Act”, insistito e alla lunga noioso. Il pezzo è comunque apprezzabile, caratterizzato dalle tipiche backing gang vocals degli Elegy, che sembrano incitare le parole come piccole cheerleaders… Bizzarro!
Il pop prog fa da padrone in “Always With You”, rock song diretta e coinvolgente. Deliziosi i salti di Hovinga sulle armoniche più alte rispetto agli strumenti, sulle parti finali di alcuni versi. Per il resto il pezzo si posa sugli standard del genere, con tanto di assolo orecchiabile nel mezzo e la riproposizione in encore del chorus su note sempre più alte…
Il pezzo più raffinato è secondo chi scrive “Under Gods Naked Eye”, piccolo gioiello AOR sfarzoso e magniloquente: una ballad grondante di emozioni, in cui il piano provvede a creare l’atmosfera giusta, disseminando le note che preludono al potente ritornello. Le doppie chitarre danno al brano un taglio elettrizzante, specialmente sul solo conclusivo, pulitissimo. Il pezzo è di quelli che mozzano il fiato, con le vocals piuttosto sommesse a spezzare la velocità e l’ipertensione costante in tutto l’album.
La strumentale “1998 (the prophecy)” risulta una squisita esposizione di virtuosismo chitarristico, avvolto in uno scenario apocalittico e generante una girandola di emozioni, a partire da un’apprensione lacerante, per straripare nell’incerto finale. Tutto questo in poco più di due minuti e mezzo.
Ritornano (finalmente?) le ritmiche incalzanti a smorzare l’ansiosa atmosfera: il compito è affidato a “Spirits”, ma la pacchia dura poco perché ben presto i toni si dirigono in una direzione drammatica e oscura, con vocals aggressive ed intense.
Ciò che riesce meglio agli Elegy è però il saltellante uptempo progressivo di, ad esempio, “Crossed The Line”, con quelle chitarre suadenti e fragili che volano sulle ritmiche marcate sul contrasto tra alte e basse frequenze.
Ancora un’altra ballad, “Live It Again”, mostra le doti (migliori, secondo me) di Hovinga sulle parti più emotive e sommesse. Sebbene non prometta sfaceli, rimane una canzone d’atmosfera immersa nei palpitanti sinth che scandiscono inesorabilmente il tempo.
Il sipario cala con “Spanish Inquisition”, dall’andatura galoppante e dalle vocals altissime, praticamente uno standard del gruppo. 

Questa mistura di pop e prog metal vince per la sua varietà, anche se c’è l’impressione che il disco tenda a trovare la sua strada più comoda e si rilassi in essa senza bisogno di esasperare la ricerca dell’originalità. Consiglio a tutti di ascoltare gli Elegy almeno una volta, per la loro abilità unica e semplice di mescolare due generi (il pop e il prog) creando qualcosa che sicuramente esce dal seminato. Il problema principale del disco rimane una produzione che punta troppo sulle alte frequenze, ma che non basta ad intaccare il valore di un disco che ha segnato buona parte del power prog in maniera, secondo me, molto positiva.

Tracklist:

01. Lost
02. Everything
03. Clean Up Your Act
04. Always With You
05. Under Gods Naked Eye
06. 1998 (The prophecy)
07. Spirits
08. Crossed The Line
09. Live It Again
10. Spanish Inquisition

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