Recensione: Louder Than Hell

Di The Dark Alcatraz - 25 Novembre 2001 - 0:00
Louder Than Hell
Band: Manowar
Etichetta:
Genere:
Anno: 1996
Nazione:
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85

Let The Game Begin Hear The Starting Gun
Play From The Heart Today We Will Overcome
When The Game Is Over All The Counting’s Done
We Were Born To Win Number 1
( Manowar – 1996 )

Sono certo di non sbagliare quando definisco “Louder Than Hell” come il capitolo più controverso della discografia dei Manowar.
Tanto per cominciare, diamo uno sguardo alla line up della band che ha visto, rispetto al precedente “The Triumph of Steel”, lo split di due elementi: Rhino e David Shankle, a favore, rispettivamente, del ritorno di Scott Columbus ( che nella precedente release non partecipò per gravi problemi familiari ) dietro le pelli e Karl Logan alla sei corde.
Naturalmente a completar l’opra, immancabili, troviamo gli ormai noiosamente rinomati Eric Adams alla voce ed il bassista e leader dei Kings of Metal, Joey DeMaio. Trovo ridondante qualsiasi ulteriore commento personale che possa identificare il percorso artistico di questi due signori, ‘chè è ben sugli occhi di tutti.
Per Scott si tratta di un non troppo gradito ritorno, almeno per il sottoscritto, in quanto chi ha bene a mente le gesta di Rhino non può non preferire quest’ ultimo al “titolare”. Si tratta comunque di un ottimo drummer anche lo stesso Columbus, non in possesso però di un pari livello di preparazione tecnica.
Karl Logan invece è all’ esordio alla Manowar guitar, compito se non improbo, quantomeno oneroso, poiché il buon Karl è chiamato a riconfermare la grande performance di Shankle di qualche anno prima e soprattutto a sobbarcarsi il peso del confronto ( inevitabile ma a mio avviso ingiusto ) con il più nobile dei suoi dirimpettai: Ross The Boss, storico, ed aggiungiamo “indimenticato” axeman della band. Logan fa della velocità il suo mestiere, ma è nella struttura delle melodie dove la differenza con gli altri diventa evidente, quasi palese. Ross, il quale faceva della tranquillità ( non disdegnando in ogni caso di comporre magmatici riffs come quelli che tanto abbiamo apprezzato in “Battle Hymns” ) il suo punto forte, non arrivò mai alla rapidità di Logan, ma gli arpeggi di cui era capace rimangono a tutt’oggi per Karl terreno minato.

Dopo questa breve digressione sul passato della band e su quanto ci manchino i precedenti musicisti, i lettori più attenti ricorderanno che avevo esordito questa recensione definendo “Louder Than Hell” un disco controverso. Ebbene, le controversie non si fermano di certo ad una mera questione di line-up, bensì anche nel disco vero e proprio si può rintracciare un motivo grottesca insanità compositiva. La controversia maggiore è, però, insita nell’ ascoltatore stesso e nelle emozioni che egli prova ascoltando questo album. L’ andamento dell’ ottava fatica dei Kings è, consentitemi il termine imprestato dalla matematica, “sinusoidale”.
Questo perché, nella prima parte, il disco procede decisamente in crescendo, culminando alla quinta traccia con “Number One”, pezzo al quale è legata buona parte della mia cultura heavy metal ed a cui sono emotivamente e sentimentalmente legato in maniera particolare, per una serie di motivi che, in questa sede, non è il caso che io menzioni.
Da “Outlaw” in poi però, la qualità musicale di “Louder Than Hell” crolla in maniera verticale, lasciandomi allibito. Ed il sentimento a cui accennavo prima è, principalmente, quello di sconforto e rammarico.
Sconforto perché, di fronte ai primi 5 brani proposti dai Four Kings ci si sarebbe aspettato una chiusura d’album all’ altezza, cosa che invece non s’è verificata. Rammarico perché, ahimè ( o ahinoi ) se, giocando con il senno di poi, i Manowar avessero dato vita ad una tracklist leggermente più sintetica ( magari di 8 tracce anziché 10 ) eliminando le due patetiche strumentali, senza alcun batter di ciglio ci saremmo trovati ( e dovutici inchinare ) innanzi ad uno dei più grandi capolavori della band, a braccetto quindi con i più blasonati, tanto per citarne qualcuno: “Hail To England” o, chessò, “Kings Of Metal”.
Siccome però i proverbi sono maestri di vita e piangere sul latte versato è inutile, visto che il danno i Manowar ormai l’hanno fatto, e ormai da un bel po’ di tempo, godiamoci quello che di buono ( moltissimo ) c’è in questo “Louder Than Hell”.

La entry track del disco è la prima delle due seconde parti delle mini-saga iniziate dai Manowar anni addietro: “Return of The Warlord”, meraviglioso sequel ( altro termine non proprio musicale, non me ne vogliate ) dell’ altrettanto mastodontica “Warlord”, già apprezzata nel più grande dei capolavori dei Kings of Metal, “Into Glory Ride”, anch’essa situata come traccia d’esordio. Poco c’è da dire che non l’ascoltare; le parole in questo caso esprimono male il concetto di perfezione artistica che questo pezzo rappresenta: solo una cosa posso dire, degno erede del suo illustre “nonnino”.
La seconda parte della seconda mini-saga ( gioco di parole purtroppo obbligato ) è “Brothers of Metal Pt.1”, seguito, ma solo in ordine cronologico, di “Metal Warriors”, pezzo che tutti certamente ricorderete come uno dei cavalli di battaglia del bellissimo e già citato “The Triumph Of Steel”, che porta come secondo nome “Brothers of Metal Pt.2”. Entrambi grandi capolavori ma, questa volta, nel “figliolo” trovo qualcosa in più che non nel predecessore. Specie nel refrain la differenza è, non dico abissale, ma importante. Un refrain meraviglioso è, infatti, il punto di forza di questo brano: in grado di dare emozioni tanto forti da risultare quasi incontrollabili. Ottima la performance, e come ci potrebbe sbagliare, di Eric Adams: l’ugola più indicata quando si tratta di fomentare lo spirito di chi ascolta.
“The Gods Made Heavy Metal” è un’altra delle canzoni alle quali sono maggiormente legato, compagna di viaggio in centinaia di chilometri trascorsi in macchina con nelle orecchie il groove di questo clamoroso pezzo. Capolavoro indiscusso dell’ Heavy Metal tutto, oltrechè dei Manowar, imprescindibile per qualsiasi heavy metal fan che si rispetti. E’ però in sede live dove questa song sprigiona il massimo della sua efficacia; è infatti uno dei pezzi più bramati dai fans ad ogni loro concerto. Divina.
In “Courage” rivedo invece lo spirito del guerriero che, stanco di mille battaglie, è ormai alla fine della sua avventura. Ma deve farsi forza, perché manca poco alla vittoria e quello che gli basta per ottenerla è il coraggio, il coraggio di un uomo, o di mille uomini in uno, che portano avanti un ideale racchiuso in una bandiera. Uniti, tutti, fino alla fine. Una delle più intense e struggenti ballad della discografia dei Manowar è, appunto, “Courage” per mezzo della quale, un commosso Eric Adams ci fa rivivere, in maniera fors’anche troppo realistica, le sensazioni di un giovane in battaglia, che è pronto anche a sacrificare la sua vita per la patria, che viene identificata più come ideale metafisico, piuttosto che contestualizzata in maniera materialistica.
Vi confesso di provare un pizzico di emozione nel commentare “Number One”, perché, come ho già detto, a questo pezzo sono legato in maniera forse morbosa e, per certi versi, me ne dolgo. Non trovo, mio malgrado, aggettivi che possano definire appropriatamente quello che provo ogni volta che ascolto questa canzone: in questo momento posso solo dire che “Number One” fa parte certamente della mia personale top five delle canzoni mai composte dai Manowar e nella top ten delle canzoni Heavy Metal in generale. Pochissime volte nella mia vita, ho ascoltato un pezzo in grado di caricarmi a tal punto. Talvolta mi trovo infatti, mentre l’ascolto, colto da forza emotiva tale, da risultare bislacco agli occhi di chi mi osserva in quel momento. Fortunatamente però, gran parte delle volte che questo si verifica sono da solo…

Ciò che segue però, in “Louder Than Hell”, non riesce neanche lontanamente a regger botta con i primi 5 componimenti. Solo in “King” c’è un seppur timido accenno di ripresa: discreto pezzo, con un ritornello orecchiabile e dei cori molto carini. Sotto molti aspetti però, mestamente fine a sé stesso.
A costo di non risultare molto nazionalpopolare, vi confesso che ritengo le due strumentali ( “Today Is A Good Day To Die” e “My Spirit Lives On” ), le due canzoni più sopravvalutate dell’ intera Manowar saga. Un lapalissiano inserimento di filler songs che tutto fanno tranne che elevare la qualità artistica dell’ album. Peccato davvero.

Siamo all’ epilogo. Quanto era necessario che si dicesse in merito a questo disco, è stato già detto dagli addetti ai lavori di qualche anno fa. Sicuramente rimane l’amaro in bocca per un ottimo disco che, con qualche semplice accorgimento in più, avrebbe navigato a vele spiegate nei profondi mari in cui stazionano tutti i capolavori dell’ Heavy Metal. Che dire: sarà per la prossima, Manowar.
Daniele “The Dark Alcatraz” Cecchini

TRACKLIST

1. Return of The Warlord
2. Brothers of Metal Pt.1
3. The Gods Made Heavy Metal
4. Courage
5. Number One
6. Outlaw
7. King
8. Today Is A Good Day To Die
9. My Spirit Lives On
10. The Power

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