Recensione: Love & Destruction

Di Stefano Ricetti - 28 Luglio 2006 - 0:00
Love & Destruction
Band: Thunderbolt
Etichetta:
Genere:
Anno: 2006
Nazione:
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73

I Thunderbolt sono norvegesi: finora hanno pubblicato un Ep nel 2000 dal titolo Bandits at Six o’Clock e nel 2002 il loro primo full length Demons and Diamonds, che onestamente non posseggo, quindi non posso fare paragoni con l’attuale lavoro. In Italia si sono fatti conoscere facendo da supporter alle recenti date live di King Diamond.

Love & Destruction è la loro ultima fatica discografica, dalla copertina sicuramente avulsa per il genere da loro proposto: un heavy metal classico che più classico non si può, tanto da non stupirsi affatto se nel retrocopertina ci fosse scritto 1986 al posto di 2006. Le influenze dei nostri sono imbullonate, di volta in volta, al suono anni ottanta di band come Judas Priest, Saxon, Iron Maiden, Dio, Riot, Candlemass, Metal Church e Fates Warning.

Nonostante si legga molto spesso da più parti che questo o quel gruppo si rifà agli stilemi dei maestri HM degli eighties, poi si scopre che in realtà gli influssi moderni o modernisti nella produzione, nel suono delle chitarre e così via sono spesso presenti, lasciando le contaminazioni sopraccitate a un ruolo marginale. Per i Thunderbolt, invece, pare che il tempo si sia fermato: Love & Destruction farà la gioia dei tanti nostalgici dell’heavy metal classico d’annata.

I brani da citare sono la massiccia Bad Boys, la cadenzata Hi-Fidelity Heartbreak, la frizzante Metallic Depression e per finire It’s Hard Life (But…) dal ritornello molto catchy. Il resto è costituito da scariche di metallo piacevoli ma non memorabili: l’opener Heavy Metal Thunder purtroppo con è il remake dello straclassico dei Saxon ma un brano ordinario al quale potevano dare un titolo diverso, anche solo per rispetto ai maestri inglesi.

A parte quest’ultima finezza, l’unico rimpianto che rimane dopo aver ascoltato questo Cd è il fatto che i Nostri dovevano e potevano osare di più in parecchie occasioni, soprattutto nell’uso di velocità superiori della batteria, alla quale spesso manca un po’ di gas.

Comunque chapeau a questi norvegesi: oggi nemmeno le band che li hanno più influenzati suonano più in quel modo datato e proporre nel 2006 un disco del genere – produzione anni ottanta compresa – diretto a una nicchia della nicchia del mercato, è una scelta coraggiosa, che rende loro senz’altro onore!

 

Stefano “Steven Rich” Ricetti  

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