Recensione: Love, Fear & The Time Machine

Di Tiziano Marasco - 9 Settembre 2015 - 8:00
Love, Fear & the Time Machine
Band: Riverside
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2015
Nazione:
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65

La botta del successo è difficile da incassare. Difficile non piegarsi alle lusinghe delle vendite, soprattutto per un gruppo di musica pesante o, nel caso dei Riverside, di élite. Difficile non stemperare la propria proposta musicale, difficile non addolcirla per irretire un sempre maggior numero di persone. Cosa strana ma vera i Riverside, alcuni anni or sono, avevano incassato la botta del successo con Anno Domini High Definition. Un album tutt’altro che destinato ad un gran pubblico, ma pure li aveva posti all’attenzione del loro paese di origine (numero 1 in Polonia), e del pubblico internazionale. Disco duro e complesso, che richiamava in vita e reinventava i migliori Pain of Salvation. Come detto in precedenza, i nostri non erano stati indifferenti all’imprevisto successo e, tre anni fa, avevano consegnato al pubblico Shrine of a new Generation of Slaves, album dai toni soffusi, album dalle melodie facili, album che, in virtù del repentino ed ambiguo voltafaccia avrebbero fatto presagire il fiasco totale (secondo alcuni andò così). E invece no, secondo molti altri quel disco era la conferma delle camaleontiche doti dei Riverside, che avevano saputo reinventarsi, finalmente si erano liberati da pressoché tutte le influenze del passato, avevano dato alle stampe un album raffinato, intelligente, che presentava lo stesso Mariusz Duda alle prese con la celebrità – e sono pressoché certo che l’idea fosse ispirata a Paw Królowej (il pavone della regina ndr.) di Dorota Masłowska.

2015, anno di conferme? Bisogna dire che l’uscita del nuovo Riverside, chiamato senza troppa fantasia (a esser buoni) Love, Fear and the Time Machine, era stato accompagnato da un paio di perplessità. Anzitutto, il titolo, come già detto. Perché se i figli di Lech non hanno mai fatto mistero di adorare i titoli lunghi, va detto che questi titoli eran comunque particolari, veicolavano emozioni e suggerivan l’anima dell’album. Love, Fear and the Time Machine invece è un titolo banale, ma proprio tanto, da scrittore in crisi. A questo era stato aggiunto un anticipo, il singolo teaser Discard your fears, che in quanto a teasing lasciava piuttosto a desiderare. Un brano che lasciava intendere la chiara intenzione di proseguire la linea di Shrine, ma senza risultare aspro o avvincente, un pezzo tremendamente ancorato a Wilson e ai suoni cari ai 70’s, confezionato molto bene, ma pure piatto, senza personalità né mordente.

E bisogna dire che purtroppo Discard your fears è un ottimo biglietto da visita per Love, Fear and The Time machine. Si tratta infatti di un disco in cui lo spettro Wilsoniano torna a farsi prepotentemente sentire e risulta quasi immanente al platter, e lo si nota fin dall’inizio, Lost, ancora una volta, un pezzo carino ma estremamente banale. Tutto quanto di buono si era sentito su Shrine, qui viene eliminato e da vita ad un lavoro debole e fiacco, molto simile a certo indie rock intellettuale; di quello che 1) ritiene The Division Bell un capolavoro e cerca di semplificarlo, perché senza il gran nome dietro non si vende; oppure 2) fa il verso ad Urban Hymns senza avere il particolare talento dei Verve. Preoccupante.

Non tutto è da buttare, anzi, non una delle dieci composizioni può risultare bocciabile dal punto di vista tecnico o compositivo. Under the pillow ad esempio è, a tutti gli effetti un buon pezzo, uno strascico della verve creativa di Shrine, ed in realtà avrebbe potuto tranquillamente farne parte. Stesso discorso per #Addicted, pezzo più facile dl disco, estremamente solido ed ispirato, con un ottimo groove di basso e un ritornello di buon impatto. Pezzo che avrebbe potuto tranquillamente essere utilizzato come singolo in luogo di Discard your fears. Caterpillar and the barbed wire e Saturate me sono altri due brani discreti e ben fatti, ancora dominati dal ritorno a casa Wilson e dalle sonorità vagamente indie-prog che fanno un po’ Pink Floyd al tramonto e un po’ Verve allo zenit.

Viene poi Afloat, breve stacco acustico che conduce alla seconda parte del disco dove le cose, sorprendentemente, peggiorano. La derivatività dell’album raggiunge un netto picco, e si risolve in quattro brani inutilmente prolissi, ripetitivi in maniera logorante e senza uno straccio di idea propria. Basti pensare che  Towards the blue horizon sembra una canzone dei nuovi Opeth. Time travellers rialza un po’ le sorti del disco, al di là della già menzionata ripetitività, grazie alle linee vocali semplici e ben costruite.

Partendo dall’assunto che la delusione per questo album, almeno per quanto riguarda chi scrive, è amplificata dal profondo ed inaspettato sbalzo qualitativo, non rimane che presentare Love, Fear and the Time Machine per ciò che effettivamente è. Un disco belloccio che non ha la minima intenzione di rischiare, un disco che spera di non perdere i vecchi fan, che con Shrine non avevano abbandonato, e cerca di conquistarne il maggior numero possibile. L’emozione invece, non c’è più. 

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