Recensione: Lower the Bar

Di Carlo Passa - 18 Aprile 2017 - 9:00
Lower the Bar
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2017
Nazione:
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72

Come pure il più priapico dei rocker si ritrova a subire un certo periodo di latenza dopo diciassette ragazze di fila, così anche il recensore fulminato sulla via dell’hair metal anni ottanta sente una brezza un poco stucchevole al quarto disco degli Steel Panther.
Feel the Steel (2009) fu una sorpresa, grazie alla straordinaria capacità della band losangelina di ricreare suoni, atmosfere e attitudini del periodo d’oro di quello che ai tempi era chiamato glam metal.
Balls Out (2011) confermò la qualità del prodotto, fissando definitivamente quelli che sarebbero diventati i canoni estetici e contenutistici della band, che ben sapeva valorizzare gli anni passati a coverizzare i vari Mötley Crüe, Dokken e Poison nei locali sul Sunset Strip.
Venne quindi All You Can Eat (2014), che spinse ulteriormente sui temi tanto cari agli Steel Panther: il video di Gloryhole, che è un gran pezzo, rappresenta una sorta di punto di non ritorno del cattivo gusto.
Ed eccoci al nuovo Lower the Bar. Certo, non ci aspettavamo alcun cambio di direzione. Anzi, eravamo ben tetragoni all’ennesimo trattato colto su Playboy e Rocco Siffredi. Egualmente, sapevamo che la proposta musicale dei quattro simpatici californiani sarebbe sempre stata la medesima. Quello che temevamo, certo senza auspicarlo, era un certo calo d’ispirazione, che lascia l’ascoltatore in un limbo indistinto, odoroso di coito interrotto (…per rimanere in tema).
Lower the Bar è l’ennesimo buon disco degli Steel Panther. Ma, se possibile, tende a suonare ancora più di maniera dei suoi predecessori. Per carità, una gran maniera. La band sa certamente il fatto suo: gli arrangiamenti sono ideali, i suoni non potrebbero essere più adatti e le linee melodiche non sono così scontate quanto sarebbe lecito attendersi dal genere. Ma resta un ma: il gioco rischia di diventare ripetitivo e, come si diceva, stucchevole. La band sembra recitare una parte più di quanto abbia mai fatto in precedenza. Grazie all’esperienza, sa camuffarlo benissimo sotto vaporose parrucche, chili di trucco e abbecedari del porno, realizzando infine un disco piacevole e mai noioso. Ma dai fuoriclasse (e, nel loro, gli Steel Panther lo sono) ci si aspetta sempre un passo in più. 
Il disco si apre con Goin’ in the Backdoor, classico anthem ruffiano pensato per scaldare le folle ai concerti. Segue Anything Goes, che è uno dei momenti più alti di Lower the Bar, con quel suo incedere molto Poison e un’attitudine festaiola fresca, che è poi quanto si richiede agli Steel Panther.
Bella anche Poontang Boomerang, nonostante l’aria di già sentito inizi a penetrare dagli spifferi. Il ritornello è oggettivamente sexy e pieno di groove, e l’assolo di Satchel è notevole. Insomma, se non si trattasse degli Steel Panther, il pollice sarebbe certamente recto. Promossa, ma con riserva.
That’s When You Came In era già nota ai fan della band (i Fanthers), perché apparsa sul recente live acustico dei californiani. Trattasi di una ballad canonica del genere, certamente ben architettata e dalla melodia piacevole, benché pecchi di una certa maniera.
Più street è, invece, Wrong Side of the Tracks (Out in Beverly Hills), veloce, aggressiva e davvero dinamica. Tra i momenti migliori dell’album, il pezzo gode di un arrangiamento davvero azzeccato, capace di valorizzare al massimo la già bella alternanza tra una strofa che fatica a trattenersi e un ritornello che scoppia in un tripudio rock realmente di qualità. 
Diversissima è, invece, Now the Fun Starts, che richiama un po’ le atmosfere di Over the Edge degli L.A. Guns. Mid-tempo, dunque, e un approccio ovattato, che rischia di scadere nella noia. In vero, la band è perfettamente in grado di tenere viva una canzone altrimenti trascurabile, grazie a una magistrale abilità nel giostrare le dinamiche delle proprie composizioni.
Pussy Ain’t Free piace più per l’ennesimo titolo ironico che non per la scrittura, che richiama i Faster Pussycat e risente di una certa stanchezza.
Per fortuna arriva Wasted Too Much Time che, al netto del testo, riporta alla mente i primi Mr. Big. Ancora una volta, si tratta di un pezzo a mezza velocità che accosta un ritornello scoppiettante a una strofa di grande groove. Il tutto suona fresco, grazie soprattutto a Satchel, che pare aver trovato qui la propria misura migliore.
I Got What You Want è un pezzo anni ottanta di una qualsiasi band hair metal che vi venga in mente. Divertente, sarà probabilmente utilizzato dagli Steel Panther in sede live; su disco, si fa ascoltare, ma poco più. 
Ah, ecco cosa mancava. Il blues rock a la Poor Boy Blues o Bad Boy Boogie. Walk of Shame esce con le ossa rotte dal confronto. Alla prossima.
Infine, ecco She’s Tight e il rocker neofita si alza dalla sedia e stupisce. Imbraccia la propria air guitar e si chiede perché un pezzo del genere sia relegato tanto in basso nel disco. Ma il rocker neofita ha un fratello maggiore che gli regala One on One (1982) e gli fa scoprire i Cheap Trick, enorme band purtroppo incapace di far tesoro del delirio dorato degli anni ottanta. La cover degli Steel Panther, che vede come ospite nientemeno che Robin Zander dei Cheap Trick stessi, è fresca, divertente e rispettosa al tempo stesso, a conferma che gli Steel Panther siano oggi i migliori epigoni di quei tempi.
Due bonus track completano il disco. Se Red Headed Step Child sarebbe potuta rimanere nell’armadio delle idee inespresse della band, tanto è canonica e prevedibile, Momentary Epiphany è una notevole ballad per pianoforte e chitarra (e che Satchel qui!), che lascia intravedere le tante potenzialità degli Steel Panther, a tratti da essi stessi castrate sotto un diluvio di volontario esilio caciarone.
In conclusione, ci troviamo per le mani un buon disco di una band ormai affermata e consapevole del proprio ruolo. Forse troppo consapevole, al punto che quel ruolo rischia di trasformarsi in una gabbia, certo luccicante e sexy ma in ultima istanza limitante. Se avete amato i precedenti prodotti degli Steel Panther, Lower the Bar non vi deluderà e correrete a rivederli per l’ennesima volta dal vivo. Ma il gioco rischia di annoiarsi di se stesso: e questo un poco filtra da Lower the Bar.

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