Recensione: Lust and War

Di Stefano Usardi - 24 Luglio 2019 - 15:56
Lust and War
Band: Aphrodite
Etichetta:
Genere: Vario 
Anno: 2019
Nazione:
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50

Lust and War” è il debutto di un gruppo dalle caratteristiche insolite, gli Aphrodite, che, sulla carta, aveva i numeri giusti per far breccia nel mio cuoricino: prima di tutto la proposta del giovane terzetto, proveniente da realtà musicali ubicate in Canada e Cile e formatosi sul finire dello scorso anno, si può descrivere come uno speed metal profondamente legato agli stilemi codificati nei primi anni ’80 (come si evince, tra l’altro, dalla grafica usata per la copertina) che mescola nello stesso calderone Exciter, Motörhead e punk, e che non contento inietta nel suo amalgama anche un pizzico del trionfalismo tipico della NWOBHM; in secondo luogo, il comparto tematico di cui i nostri si fanno promotori rispolvera la cara vecchia mitologia greca, presentando praticamente una divinità o creatura mitologica in ogni traccia. Davvero, non c’erano grandi possibilità di deludermi viste queste premesse, e invece… eh, sì, un invece c’è, e per giunta neanche tanto piccolo.

Partiamo da quello che funziona. Il comparto strumentale riesce a trasmettere un certo fomento grazie a ritmiche serrate, riff secchi e melodie adrenaliniche, che seppur estremamente semplici (per non dire scolastiche) risultano funzionali allo scopo: la batteria pesta il giusto e detta i tempi con fendenti asciutti e insistenti mentre il basso pulsa in continuazione, trovando il modo di emergere dalle retrovie piuttosto spesso; le chitarre sono dirette, nervose e non stanno tranquille un secondo, graffiando costantemente e lanciandosi, di tanto in tanto, in vortici solistici funambolici ma sempre all’insegna della schietta semplicità figlia di un certo punk. A condire il tutto, melodie che, come già detto in precedenza, strizzano l’occhio di tanto in tanto alla tracotanza un po’ trionfale del caro metallo britannico dei tempi d’oro. Fin qui tutto bene: certo, come dicevo prima niente per cui gridare al miracolo – il comparto strumentale spinge sempre più sulla semplicità e l’attitudine che su altro – ma comunque tutti gli elementi che mi piace trovare in un album speed metal ci sono. Le note dolenti iniziano a presentarsi quando entra in scena la voce: Tanza Speed ha una voce molto particolare ed esibisce un approccio stradaiolo, sfacciato e insolente che andrebbe benissimo in un album di punk puro ma che qui, e mi spiace dirlo, in più di un’occasione rovina il lavoro fatto dai suoi colleghi con una resa troppo sguaiata e, in alcuni punti, addirittura indolente. Posso capire che, nell’ottica di un album diretto, grezzo e istintivo come, credo, sia stato concepito questo debutto, anche la voce debba trasmettere quell’aura di insolenza un po’ naif che profuma molto di strada e che sembra gridare al mondo il suo rigetto di ogni compromesso, ma perché la cosa funzioni è importante che tale approccio non vada a detrimento della resa complessiva.
Cosa che qui, invece, succede.
Già dalla partenza si percepisce qualche piccola difficoltà vocale, ma il tutto viene coperto piuttosto bene dal reparto strumentale, che screzia il pezzo con delle interessanti inflessioni di scuola NWOBHM energizzate a dovere. Le cose, però, iniziano a traballare pericolosamente man mano che si procede nell’ascolto, visto che a fronte di una resa strumentale molto semplice ma, e questo va detto, anche piuttosto adrenalinica e dal piglio amabilmente cafone, la voce molto particolare di Tanza avanza in modo sempre più incerto, sfasandosi sempre più dal muro di suono prodotto dai suoi colleghi senza trasmettere una grande passione (e se stai cantando di dèi ed eroi della mitologia classica un po’ di passione e fomento vocale sarebbero quantomeno bene accetti). Il punto peggiore si raggiunge a mio avviso nella destabilizzante “Lightning Crashed”, in cui la voce sembra costantemente fuori tono creando, nel sottoscritto, una continua sensazione di fastidio che viene acuita nei momenti in cui entra in gioco il terremotante “wooah!” di Tanza. Tracce interessanti ci sono – penso ad esempio all’opener “Hades in the Night”, la cacofonica e diretta “Ares, God of War” e “Orpheus Charms the Gods of Death” – ma la sensazione generale è quella di sentire un gruppo punk che cerca invano di suonare metal: in effetti, c’è la possibilità che questo sia proprio il modo migliore per apprezzare il debutto degli Aphrodite, mettendo cioè da parte ogni considerazione su forma e struttura delle canzoni e badando semplicemente alla carica che i tre riescono a dispensare col loro, diciamo così, punk eroico, ma non è detto che tutti siano disposti ad accettare questo compromesso.
Speriamo che i nostri aggiustino il tiro con gli album successivi, ma per il momento direi che non ci siamo.

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