Recensione: Mabool

Di SANdMAN - 11 Marzo 2004 - 0:00
Mabool
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Anno: 2004
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80

Dopo alcuni anni d’assenza dalle scene mondiali, causa servizio militare, gli israeliani Orphaned land si ripresentano con il loro nuovo disco doppio: dodici tracce del primo cd e cinque nel secondo. Il bonus cd non è altro che la registrazione di un live show acustico e contiene canzoni tratte dai loro vecchi lavori (El norra alila e Sahara) più una cover dei Paradise Lost, per la precisione “Mercy”, ed un medley di otto loro pezzi per un totale di ventisei minuti di live.
Ora cominciamo a dare uno sguardo più approfondito a quello che è “Mabool”.
La opener intitolata “Birth of the three (the unification)” si apre con un sottofondo dato da voci di bambini ma che da subito largo al cantante (Kobi Farhi) che sfoggia la sua abilità ed estensione vocale, dai growls al pulito senza problemi. I suoni subiscono molto le influenze delle origini del gruppo e molto di frequenti sono gli innesti di suoni e arrangiamenti tipicamente mediorientali.
Le tastiere (Eden Rabin) sono appena accennate e si fondono molto bene con il tappeto sonoro creato dal gruppo; molti passaggi di questa canzone ricordano i Dark Tranquillity di “ Projector ” e gli Opeth; pregevole anche il lavoro del batterista preciso, tecnico ma non sterile.
”Ocean land (the revelation)” la traccia successiva, è una delle canzoni più fortemente carica di suoni folk del cd. Canzone piuttosto movimentata; molto belli gli assoli di chitarra (Matti Svatizki e Yossi Saharon detto “Sassi”) tutt’altro che prevedibili e con finale a sorpresa.Terza canzone “The kiss of babylon (the sins)” che si apre in modo molto “carico” growls e stoppati di chitarre, con l’apporto poderoso di basso (Uri Zelcha) e batteria suonata da un session man (Avi Daimond) . Tutta la forza lascia poi spazio ai consueti suoni provenienti dal vicino islam e ad affascinanti cori femminili supportati, per contrasto, da una batteria piuttosto veloce; il finale di questo pezzo ci presenta le capacità vocali di Slomit Levi (session vocalist) che ci traghetta dalla terza alla quarta canzone “A’salk” nella quale dopo alcuni secondi di solo voce femminile ci si presenta davanti una serie di strumenti tipicamente mediorientali dove le percussioni la fanno da padrone (suonati da Avi agabada, altro session man) che accompagnano la dolce voce femminile.
Quinta traccia “Halo Dies (the wrath of God)” inizia con alcune frasi dette in ebraico, dopo di che si sente la forza del gruppo irrompere nelle casse. Anche qui suoni misti e voce che salta da un tono all’altro, come le precedenti senza però annoiare. Interessanti gli stacchi proposti in questa canzone e i cambi di tempo. In alcuni punti della canzone, gli Orphaned Land “sconfinano” nel black alla Dimmu Borgir ma solo per pochi secondi; richiami anche a Mike oldfield (con la famosa “Tubolar Bell” ) ed ai Cynic per l’arpeggio fusion/jazz.
Al centro del cd abbiamo “ A call to awake (the quest)” canzone che musicalmente mi ricorda gli Anathema di “Alternative 4” e i sopraccitati Dimmu Borgir (per la parte di growls misti a scream); pezzo comunque molto “tirato” e carico, senza scadere nella mera cacofonia.
“Building the ark” è la canzone successiva, contrapposta alla precedente per “violenza sonora”:è un bellissimo pezzo acustico/folk con innesti di cori femminili e tastiere a coadiuvare il suono corposo degli strumenti tradizionali delle loro terre.
Di seguito “Norra el Norra (entering the ark)” canzone completamente in ebraico.
Nona canzone è “The calm before the flood” traccia strumentale, dove le chitarre la fanno da padrone supportate dai suoni e dagli effetti delle tastiere.L’effetto della pioggia ci accompagna alla traccia che da il nome al cd “Mabool (the flood)”. Come appena scritto, la canzone, si apre con il suono della pioggia che cade, misto a un ensemble di archi che suonano un motivo piuttosto veloce. Si può notare che in molti punti della canzone vengono inseriti dei cammei di voce pulita; sia da parte del cantante che da parte della session vocalist femminile.
Quindi l’undicesima canzone che è “The storm still rages inside” e che si snoda in modo magistrale in quello che potrebbe essere una canzone di prog metal (non me ne vogliano i puristi del prog e del gothic). Canzone molto lunga, ma non stucchevole; poche le parti cantate rispetto a quello che è lo standard delle altre tracce. Il finale è dato dal risciacquo delle onde del mare che ci portano a “Rainbow (the resurrection)” che sfocia in un altro strumentale, nel quale, anche in questo caso, la chitarra “comanda”.
Curatissimo in tutti i suoi sviluppi, dalla registrazione al mixaggio (secondo me magistrale) fino al booklet.
Uniche pecche, se vogliamo proprio trovarne:
1) la lunghezza di alcune canzoni;
2) i troppi concatenamenti tra una canzone e l’altra (questo potrebbe non piacere a molti, certo è che siamo di fronte ad un concept album quindi è pressoché normale).
Per concludere: un album che è un bellissimo biglietto da visita per chi non conosce il gruppo nonché un “ ben ritrovato” per chi li conosceva già e li ha saputi aspettare.

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