Recensione: Machinery

Di Beppe Diana - 19 Maggio 2002 - 0:00
Machinery
Band: No Return
Etichetta:
Genere:
Anno: 2002
Nazione:
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80

Dopo una lunga militanza underground costellata dalla realizzazione di ben cinque album, il primo dei quali il granitico “Psycological Torment” del lontano 1991, anche per i francesi No Return è arrivato finalmente il tempo di accasarsi presso una prestigiosa label, la Nuclear Blast in questo caso, e di godere della giusta reputazione e della popolarità che in tempi non sospetti gli era più volte sfuggita dalle mani.

E così dopo la pubblicazione dell’ottimo “Self mutilation”, album che aveva sancito il come back dei nostri dopo anni di lungo silenzio, il sestetto transalpino si ripresenta al grande pubblico con il sorprendente “Machinery” che, da quello che lasciano trapelare i testi legati alle varie song, dovrebbe snodarsi attorno ad un concept  sulla biomeccanica e sulle scienze moderne. Un vero must  sicuramente fra i maggiori high lists del suo genere in questo primo scorcio di 2002, ineccepibile sotto tutti i punti di vista, dalla produzione alla fervida passione con cui è suonato alla tecnica strumentale di cui i No Return fanno ampio sfoggio dando l’impressione di sapersi destreggiare con disinvoltura su aridi territori che trovano la loro giusta collocazione in ambientazioni death/thrash dal taglio spiccatamente modernista dovuto soprattutto all’utilizzo ben distribuito di samples ed effetti elettronici che sono sicuro potrebbero far storcere il naso a più di un metallaro oltranzista.

Un album tecnico, aggressivo e futuristico allo stesso tempo, sicuramente più heavy e groovy del suo degno predecessore dal quale si distacca prepotentemente per via di una maggiore attitudine thrash che fonda le sue radici nel suono della bay area dei primi eighties, Violence ed Exodus in primis. E si, i nostri cuginetti francesi dimostrano in più di un’occasione di avere le carte in regola per compiere il tanto sospirato salto di qualità, e brani come l’accattivante title track “Machinery” o come la mazzata speed/thrash “Virus”, o l‘adrenalinica “Biomechanoid” ne sono la più lampante testimonianza, song in cui è ben presente una perfetta coesione fra musica, concetti ed immagini, elementi in cui l’album in questione trova le sue più solide fondamenta.

Un ottimo lavoro dunque per una band che dimostra di non temere paragoni con i suoi più illustri colleghi, e se a tutto questo aggiungete la superba cover di “Secret face” dei Death del periodo di “Human”, reinterpretata a loro modo, beh non so proprio cosa vogliate di più, si perché se un accanito defender come il sottoscritto tutto spadoni e draghi è stato fortemente attratto da quest’album, un motivo più che plausibile ci dovrà pure essere, o no?

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