Recensione: Magic & Mayhem: Tales from the Early Years

Di Daniele Balestrieri - 2 Ottobre 2010 - 0:00
Magic & Mayhem: Tales from the Early Years
Band: Amorphis
Etichetta:
Genere:
Anno: 2010
Nazione:
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60

Proseguono i festeggiamenti del ventennale in casa Amorphis con una nuovo album-contenitore da considerarsi parte della rievocazione iniziata due mesi fa con Forging the Land of the Thousand Lakes.
La “majestic beast”, pescione decantato nell’ultima fatica di Koivusaari e soci, troneggia selvaggio in campo blu e introduce una carrellata di vecchie glorie del periodo ’92-’96, opportunamente risuonate, rimaneggiate e ricantate nello stile dell’ormai ben rodato Tomi Joutsen: non si tratta, quindi, di un’operazione puramente commerciale di rimasterizzazione di vecchi brani, bensì di una vera e propria “dichiarazione d’amore” e di riscoperta di quello stile feroce e pseudo-psichedelico che ha segnato in modo indelebile i primi Amorphis e che ha gettato le basi della loro fama ormai planetaria.
Molti dei fan di più vecchia data guardano a quel periodo con nostalgia e un pizzico di rammarico: la furiosa e incosciente rivolta che serpeggiò in mezza Europa a seguito della pubblicazione di Elegy, energica virata dettata sia dal cambio di vocalist e sia dalla maturazione inevitabile degli allora poco piu’ che ventenni Koivusaari e Rechberger, fu considerata una ferma dichiarazione d’intenti: il vascello Amorphis avrebbe navigato di costa in costa senza arenarsi in uno stile o un genere predefiniti. Ormai ci siamo tutti abituati, ma un simile “progressivismo” destava ancora meraviglia (e sospetto) nel circuito estremo di 14-15 anni fa.
L’idea di far riemergere alcuni specifici brani dalle nebbie del tempo era nell’aria già da alcuni anni, ma vuoi gli impegni live e vuoi il lavoro incessante sui nuovi album, la sua realizzazione venne continuamente posticipata nel tempo. Probabilmente proprio Joutsen, dichiarato fan degli Amorphis dei tempi che furono e forte sostenitore del growl – in forte contrasto con l’ormai schizzinoso Koivusaari – sarà stato punto cardine nella materializzazione di questa raccolta. Si vede effettivamente il godimento del neocantante di fronte a brani tutti old-style come “Exile of the Sons of Uisliu” o “Vulgar Necrolatry“, eppure, nonostante le obiettivamente esaltanti promesse, qualcosa non ha funzionato come avrebbe dovuto.

Toccare brani storici come questi, cementati e affondati nella mente dei fan da almeno quindici anni, è un’operazione delicata quanto il disarmo di una testata nucleare: uno strattone un po’ troppo vigoroso e si rischia di saltare per aria insieme a mezzo pianeta.
Il tempo di Karelian Isthmus, di Tales from the Thousand Lakes e di Elegy è lontano e magico: al tempo furono tre dischi che non solo segnarono un passo importante dal punto di vista tecnico ma che riuscirono a trasudare ispirazione e genuina spontaneità, sia nel comparto compositivo che in quello esecutivo: in sostanza, tra i solchi di quel trittico di album si respira a pieni polmoni l’atmosfera tipica di quell’epoca, tipica di quei musicisti e tipica della loro età anagrafica. Rivangare il passato e ricoprirlo di una mano di intonaco può rivelarsi un’operazione dal retrogusto artificiale, e questo è quanto purtroppo è accaduto in questo frangente.

Prendiamo proprio l’opener, “Magic & Mayhem“: massacrata. Lo storico passaggio acid-psicadelico di metà traccia è stato rallentato, le tastiere ripulite e banalizzate, la sensazione di urgenza, di fretta, di pericolo che permeava l’intera sequenza strumentale d’intermezzo è stata soffocata in favore di suoni più puliti, asettici e professionali.
È vero, Joutsen è un maestro del growl e la sua passione per quelle tracce che non ha mai avuto la possibilità di registrare trapela nitidamente nella storica “Against Widows“, il cui inizio è tuttora un calcio dritto in faccia: rimane comunque una fastidiosa sensazione di scuola death standardizzata che mal si amalgama con quel growl cattivo, velenoso e isterico di Koskinen che già da solo donava una dimensione Kaleval-tastica a un disco come Elegy che proprio dal contrasto tra atmosfere esplosive e passaggi più
sinistri traeva la propria forza dirompente ed esilarante.
Irritante il passaggio in clean, la cui tonalità è stata modificata in modo drammatico. In molti hanno accusato i nuovi Amorphis di essere un po’ troppo piagnucolosi, sensazione già abbastanza diffusa fin dal pinkfloydiano Far from the Sun: ebbene, di certo questo rimaneggiamento della stellare Against Widows darà altro cibo ai troll “anti-neo Amorphis”.
Non è facile scrollarsi di dosso l’idea di streamlining death-oriented al cospetto del growl di apertura di “Drowned Maid“, altro capolavoro la cui atmosfera è rimasta miracolosamente intatta: di fatto probabilmente è il brano meno rimaneggiato – non è un caso che Koivusaari sia tornato dietro al microfono proprio in questa traccia, dopo 17 anni di assenza volontaria e autoimposta. Tuttavia, eliminare il pietoso sciabordio della risacca in chiusura del brano è come omettere il ribollire del pentolone in The Woodwoman o i colpi di cannone dall’Overtoure 1812: la tragedia di Drowned Maid sembra non realizzarsi, il climax muore in un colpo secco di chitarra, senza la gelida catarsi originale.

On Rich and Poor“: una delle aperture più riconoscibili di tutto Elegy, qui reinterpretata con una dinamica eco in conclusione del riff portante e una porzione in clean che, purtroppo, ancora non riesce a convincere fino in fondo. Forse Joutsen dovrebbe smetterla di imprimere tanto slancio sentimentale al suo cantato pulito, e se non si capisce bene cosa intendo, forse è il caso di dare un’ascoltata all’introspettiva “My Kantele“, ancora graziata delle fantastiche tastiere originali ma traviata da stacchi vocali talvolta ammiccanti al pop. E se sembra un discorso con i paraocchi/orecchi in strenua e cieca difesa del passato, è lecito dire che questa My Kantele modernizzata è stata dotata di un finale pesantemente “customizzato” davvero di grande spessore, tutt’altro che fuori luogo. È naturale che il vero banco di prova sia l’intoccabile “Black Winter Day“, probabilmente ad oggi ancora la canzone più celebrata degli Amorphis, e si nota l’impegno di Joutsen a non sbavare nemmeno una lettera e soprattutto il “safe play” dell’intera band con la sezione di tastiere, rigorosamente aderente all’originale ma leggermente più virtuosa – sebbene bisogni rimarcare una certa svogliatezza nelle chitarre ad allungare i riff secondo i dettami della versione originale… e uno stacco finale un po’ dubbio, dal gusto quasi Aerosmithiano. Stendiamo un velo pietoso sul secondo riarrangiamento della cover di “Light my Fire” dei Doors, divertente la prima volta, decisamente fastidioso la seconda.
Insomma, che riregistrare album dallo status leggendario come Karelian Isthmus, Tales from the Thousand Lakes ed Elegy fosse assimilabile al camminare su un tappeto di schegge di vetro non era un segreto nemmeno per la band, già avvezza alle critiche feroci per via dei continui colpi di testa artistici a cui ci ha abituati da venti anni a questa parte; tuttavia, una carriera tanto lunga e tortuosa ha certamente indurito la pelle dei membri originari ancora in pista e soprattutto li ha convinti che fare quel che si vuole, quando si vuole, può portare a fama inattesa.

In questo episodio della loro discografia non parliamo di fallimento musicale, sia chiaro: come preventivato, le canzoni sono state reinterpretate in maniera professionale e suonano come un prodotto competitivo e all’altezza di un 2010 sempre più rivolto alla tecnica come veicolo emozionale. Purtroppo la sensazione globale è quella di banalizzazione, di streamlining di brani un tempo infusi di una magia incontenibile: la sensazione è che se questi brani fossero usciti, in questa forma, nei relativi album originali, probabilmente non avrebbero spezzato nemmeno un decimo dei cuori che vennero letteralmente macellati ai tempi che furono. Se gli Amorphis del 1992 avessero suonato queste stesse canzoni col piglio e l’interpretazione degli Amorphis del 2010… ho come l’impressione che ora, probabilmente non saremmo nemmeno qui a parlare di Amorphis.
Certo, ho preferito senza dubbio ascoltare questi tredici brani rimaneggiati, piuttosto che trovarmi di nuovo di fronte a una compilation di brani riscaldati di quindici anni fa: è stato un modo come un altro per scandagliare un po’ più in profondità l’anima degli Amorphis di oggi e per riscoprire il modo in cui si rapportano all’inizio della loro carriera. 13 tracce valgono più di 1000 risposte ad altrettante interviste, per cui il valore storico e pratico di quest’uscita è innegabile. Ma per carità, ascoltatevi le originali e, a meno che non siate completisti, lasciate perdere questo Magic & Mayhem: Tales from the Early Years, anche se con la morte nel cuore.

Daniele “Fenrir” Balestrieri

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TRACKLIST:

01. Magic And Mayhem
02. Vulgar Necrolatry
03. Into Hiding
04. Black Winter Day
05. On Rich And Poor
06. Exile Of The Sons Of Uisliu
07. The Castaway
08. Song Of The Troubled One
09. Sign From The North Side
10. Drowned Maid
11. Against Widows
12. My Kantele
13. Light My Fire (Bonus Track)

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