Recensione: …Magni Blandinn ok Megintiri…

Di Daniele Balestrieri - 17 Maggio 2002 - 0:00
…Magni Blandinn ok Megintiri…
Band: Falkenbach
Etichetta:
Genere:
Anno: 1997
Nazione:
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90

Dopo appena un anno dalla release del superbo …en their medh riki fara, il geniale islandese dal sangue pagano ritorna sugli scaffali e negli stereo con …magni blandinn ok megintiri, un lavoro che si prospetta ancora più magnificente fin dalla copertina, una flotta di Drakkar immersa in un fiordo inondato da una luce incerta, drammatica e altamente evocativa. Il suo compito non è facile: bisogna superare, o quantomeno mantenere, le aspettative provenienti da un album precedente che è a tutti gli effetti annoverato come gemma autentica del Viking Metal, un progetto ambiziosissimo di unione di Viking, Folk, Black e Pagan Metal, un misto di atmosfere, di brutalità e di epos nordico. Il primo album è stato una ciambella con il buco perfettamente riuscito, e se questo seguito deve tradire… di certo non tradisce alla prima canzone.

L’apertura, infatti, …When Gjallarhorn Will Sound, è l’eredità più evidente dell’album precedente. Proprio un figlio di …en their medh riki fara, con i suoi dieci minuti flauti evocativi, il suo irresistibile mix di voci pulite e screaming black, e tante tastiere di accompagnamento, di atmosfere, che aiutano a creare l’ambientazione nella quale inizia a dipingersi il grande quadro Pagan che questo album si prefigge. Tastiere sì, ma tastiere di un certo tipo. Se avete in mente le tastiere dei Thyrfing, in particolare di Valdr Galga, non sono tastiere dello stesso genere. Il nostro Vratyas Vakyas non aggredisce l’aria con tastiere pompose, violente, rumorose. L’utilizzo del mezzo elettronico qui risulta più equilibrato, più mirato, più armonioso. Probabilmente è uno dei pregi dell’essere una one-man band, e ringraziamo tutti gli déi per aver conferito a un solo uomo tanto equilibrio per creare CD dalla varietà così spaventosa senza scadere in eccessi che potrebbero minare l’ascolto. Che dire, se non che la prima scorre esattamente come scorrerebbe un album intero, con queste vocal sicure, equilibrate, supportate da grandi strutture metal e tanta varietà, tanto da ascoltare e da mangiare che un rutto a fine canzone non sfigurerebbe, se non fosse che svilirebbe una musica tanto elevata e tanto epica. Suonato il Gjallarhorn, il corno di Heimdall, non può che iniziare lo spargimento di sangue, e un riff nervoso, sporco e un gorgoglìo black aprono …Where Blood Will Soon Be Shed, una canzone più diretta all’orecchio, che manca della pompa della precedente, ma che raggiunge un nuovo livello di epica grazie ad alcuni pezzi recitati in voce distorta e a una presenza più massiccia di sonorità black, con tastiere all’inizio di mero accompagnamento, che lasciano quasi ricordare qualche momento Emperor, o Dark Throne, un sound rassicurante insomma, che però nel suo lento svolgimento si riporta nuovamente all’epica folk medievale, tra cori carichi di tensione e grande varietà di strumenti.

Lo spargimento di sangue ci apre i cancelli di Towards the Hall of Bronzen Shields, dove si ritorna alla lenta epica più tipicamente Falkenbach. Voci pulite e tempi decisamente più blandi accompagnano una canzone mediana, triste, senza particolari variazioni sul tema. Questo mi porta a una sola conclusione: Vakyas vuole valorizzare il testo, più che la musica. E da una prima lettura non posso che rimanere piacevolmente sorpreso da questa intuizione che si rivela reale: per i fanatici del Viking Metal questa è forse una delle canzoni più evocative dell’intera produzione scandinava, e scusatemi se è poco. C’è chi parla di ispirazioni al Bathory dei migliori tempi di Hammerheart o Twilight of the Gods: non so se siano ispirazioni dirette, ma una cosa è certa: a livello di musica “ispirata” Vakyas può stringere la mano a Quorthon senza abbassare lo sguardo, in particolare con questo secondo album, che ha raggiunto un livello di profondità concettuale maggiore rispetto al primo.

Lenta la terza, lenta anche la quarta: The Heathenish Foray prende un ritmo molto orecchiabile e lo adorna di un flauti e tamburelli decisamente folk, mentre in voce pulita decreta l’annichilimento delle tastiere di primo piano e lascia più spazio all’atmosfera, alle chitarre dal suono talmente modulato da sembrare quasi tastiere, come se stesse pitturando lo sfondo di un quadro esauritosi con le prime tre canzoni.

Tuona, e una batteria solenne scandisce le chitarre black di Walhall, l’esperimento finale di Vakyas, che non solo tira fuori l’ennesima voce pulita, ma stavolta la modula in maniera molto più azzardata di quanto non avesse fatto finora, rendendola quasi lirica, mentre l’allungamento delle vocali ci suggerisce un’ode al luogo tra le nubi dove i guerrieri morti con onore si riuniscono in attesa del Ragnarok. Questa è forse la più lenta della sua produzione, una canzone che mi ricorda le finali di gruppi come Forefather, Himinbjorg, finali drammatiche, quasi titoli di coda, il riposo dopo la guerra, ma contemporaneamente si ritorna alla grande varietà che caratterizza l’inizio di questo album, con frasi recitate con voce cavernosa e tastiere più preponderanti.

Conclusosi l’album vero e proprio ci troviamo di fronte a una strumentale spaventosa, Baldurs Tod. Un tenebroso, agghiacciante inizio lascia spazio a tastiere pompose, rullanti black e timpani che scandiscono un tempo epico, maestoso, quasi operistico. C’è chi dice che questo sia uno dei pezzi strumentali meglio riusciti della storia del Viking Metal. Di certo la morte di Baldr rappresenta un momento topico nella mitologia nordica, e sancisce la morte del bene in favore dell’insorgere del caos, sotto gli occhi maligni del Loki traditore per l’ennesima volta. E certo, se qualcuno volesse trasporre in musica una simile tensione, dovrebbe prendere esempio proprio da questo Baldurs Tod, che chiude così definitivamente questa seconda opera.

Nel complesso, …magni blandinn ok megintiri è un tentativo di concept eddico molto ridotto, ma di grande pregio stilistico. Stupefacenti sono i testi: chiunque ascolterà quest’album non deve prescindere dalla poetica epica e drammatica dei testi, che hanno molto da insegnare a tutte le band europee che si professano Viking: un termine pesante, scomodo, molto impegnativo, e oppresso da ombre insormontabili come Bathory o Mithotyn, band con le quali nessuno vuole confrontarsi, e quindi poco usato apertamente. Reputo quest’album inferiore al primo per un paio di ragioni: il primo è più vario, le canzoni sono degli esempi stupefacenti di tecnica e di mix Viking, Folk, Epico e tutti quei generi ai quali Vakyas si riferisce. Questa seconda uscita è leggermente più stanca e musicalmente asettica. Gode dell’equilibrio di …en their medh riki fara, ma non della stessa gloriosa magnificenza. Vien da sé, però, che preso da solo quest’album è un altro gioiello del Viking Metal, non proprio così leggibile nell’immediato come il primo, ma un altro pezzo di storia. È quasi denigrante confrontare due mastodonti come questi tra di loro, per vedere chi perde. È fastidioso, ma bisogna farlo.

L’unica cosa di cui non mi capaciterò mai è perché i Falkenbach non sono conosciuti nemmeno 1/100 di quanto dovrebbero, e perché non vengono presi come esempio di epic, o di viking, o di pagan, al pari di band del calibro di Immortal, o di Borknagar, o di… anche di Bathory, perché no. A tutti piacciono, ma nessuno li ascolta. Sarà una di quelle nicchie ingiuste nelle quali languono band dalle potenzialità impressionanti, ma magari penalizzate dal fatto che siano gestite da una sola persona o dal fatto che non sanno come promuovere la loro immagine… oppure perché suonando un mix di generi… piacciono a tutti gli ascoltatori ma non entrano nel cuore di nessuno.

TRACKLIST:

  1. …When Gjallarhorn Will Sound
  2. …Where Blood Will Soon Be Shed
  3. Towards The Hall Of Bronzen Shields
  4. The Heathenish Foray
  5. Walhall
  6. Baldurs Tod

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