Recensione: Manifestation of Fear

Di Alessandro Marcellan - 5 Febbraio 2008 - 0:00
Manifestation of Fear
Band: Elegy
Etichetta:
Genere:
Anno: 1998
Nazione:
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78

A distanza di un solo anno da “State of mind”, primo full-lenght con Ian Parry al microfono a sostituire lo storico singer Eduard Hovinga, tornano gli Elegy di Henk Van der Laars, chiamati a riportare in auge il nome della band che per prima, ad inizio decennio, aprì le danze del power-metal di matrice “progressiva”. Compito non facile, se pensiamo che il disco del ’97, pur di buona fattura, non reggeva il livello dei primi capolavori (“Supremacy” su tutti) e non riusciva a tenere il passo di una concorrenza in stato di grazia, che proprio in quegli anni sfornava i suoi maggiori capolavori decretando un vero e proprio “boom” nel settore del power “contaminato” (Holy Land, The Divine Wings of Tragedy, Imaginations from the Other Side, Visions, Return to Heaven Denied, Symphony of Enchanted Lands, Paradox, solo per citare alcuni dei dischi di quel magico periodo).  

La band olandese si rimbocca le maniche e si ripresenta con una formazione a cinque per l’innesto di un tastierista fisso in line-up (Chris Allister) ed un sound che, coraggiosamente, si distacca in parte dal passato, abbandonando certe aperture ariose e barocche per abbracciare atmosfere dalle tinte fosche: una cornice idonea a rappresentare un concept duro (opera di Parry), sulla vita di un ragazzo cresciuto nei quartieri proletari di una città industriale, messo alla luce da una coppia sposatasi in clandestinità e nato orfano di padre alcolista e suicida.  

“Unorthodox Methods”, il brano d’apertura, presenta il lato power della band: potrebbe richiamare certi brani speed di Angra o dei Riot anni’90, ma è più facile ed onesto ricondurre il tutto proprio al più classico trademark power-prog degli olandesi, rappresentato dall’affiatata e precisa sezione ritmica Helmantel-Bruinenberg e da un riffing mai domo (qui doppiato da lontano dalle tastiere di Allister), mentre la novità maggiore è in fase solista, dove Van der Laars rinuncia alle twin-guitars (ormai presenti in “State of mind” solo come sovraincisione, dato lo split con Gilbert Pot) per lanciarsi in assoli più tradizionali seppur di grande personalità. Questo brano, assieme al successivo “Frenzy” (più nervoso ed articolato, con tastiere più evidenti e un bel crescendo nel bridge), analizza le difficoltà educative della madre nell’infanzia del protagonista, fra echi di “buonismo” lontani dalla cruda realtà dei sobborghi cittadini. “Angel without Wings”, composto da Ian Parry, è un mid-tempo ‘rychiano intriso delle domande di uno spaesato adolescente che prematuramente sta per diventare adulto: meglio un’onesta vita di stenti o il facile arricchimento nell’illecito? Qual è il confine fra giusto e sbagliato? La risposta nel binomio successivo, in cui il carisma di un protagonista che scappa di casa si fa largo negli ambienti del crimine: “Savage Grace” presenta qualcosa dei vecchi Elegy nei controtempi della strofa, per poi affondare nelle tinte oscure del rallentato refrain, un preludio, quest’ultimo, agli echi sabbathiani di “Master of Deception”, che sembra presa direttamente da certi dischi dell’ “era R.J. Dio”. La malavita porta denaro, ma anche molti nemici e la solitudine di un ragazzo ormai già uomo vissuto, che ritorna bambino nei ricorrenti incubi notturni: “Solitary Day” sembra in certi momenti un manifesto degli Elegy d’annata, fra sezione ritmica movimentata, intermezzi neoclassici e melodie apparentemente rassicuranti, ma certi toni cupi spuntano ancora per poi riemergere prepotenti nei riffs pesanti e cadenzati di “Manifestation of Fear”, interrotti solo dagli inserti progressivi di classe posti nel bridge e all’inizio dell’assolo, in cui Van der Laars dà spettacolo su inquiete basi atmosferiche (con tastiere ben presenti). Il songwriting torna in mano a Parry nei tempi medi di “Victim of Circumstance”, aperta da gelide tastiere che conducono ad un groove più vicino al metal tecnico e melodico dei Fates Warning di “Parallels”: qui il protagonista, sulla via del pentimento, si ritrova a chiedere aiuto alla madre ripudiata, che lo riaccoglie a sé nel desiderio di recuperare la scorza buona che c’è in lui, sommersa da anni di ambienti corrotti. I tetri arpeggi di “The Forgotten” (con una splendida prova di un Parry impegnato su tonalità medio-basse) stanno lì a raffigurare le difficoltà di un pieno recupero alla rettitudine di un uomo sfiduciato e senza più autostima, ma la breve strumentale “Redemption” (con assolo di Van der Laars su dissonanze tipiche dei vecchi Elegy) è il passaggio, fra residue incertezze, verso il riscatto morale e sociale del protagonista, che si compie nella conclusiva “Metamorphosis” (di cui è co-autore il tastierista Allister), che si avvicina al riffing progressivo dreamtheateriano prima di un ritornello power che restituisce atmosfere finalmente positive, fino alle note di rivalsa finale espresse nell’outro della traccia da Parry, fra tastiere più luminose e la chitarra solista di un sempre ottimo Van der Laars.  

Qualitativamente il disco rialza le quotazioni degli Elegy (fu tra l’altro top-album in alcune riviste specializzate), pur non consentendo alla band di riconquistare lo scettro di quel power-progressivo da essa inaugurato anni addietro, essenzialmente a causa di un settore inflazionato e dal cambiamento dei gusti dei kids, a quel punto più tendenti alle nuove contaminazioni, sinfonico/barocche, etniche, o epico-medievaleggianti che fossero. Resta comunque, verosimilmente, il miglior prodotto degli Elegy dell’era Parry, e ne consiglio sicuramente l’ascolto agli appassionati del power “di confine”.  

Alessandro Marcellan“poeta73”    

Tracklist:
1) Unorthodox Methods (5:16)
2) Frenzy (4:34)
3) Angel Without Wings (4:45)
4) Savage Grace (4:58)
5) Master of Deception (5:26)
6) Solitary Day (Living in an Ivory Tower) (4:44)
7) Manifestation of Fear (5:40)
8) Victim of Circumstance (5:30)
9) The Forgotten (3:38)
10) Redemption (Inst) (2:09)
11) Metamorphosis (6:23)

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