Recensione: Manor of Infinite Forms

Di Daniele D'Adamo - 6 Giugno 2018 - 15:54
Manor of Infinite Forms
Band: Tomb Mold
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2018
Nazione:
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65

“Manor of Infinite Forms” è il secondo full-length in carriera dei Tomb Mold, rappresentativo di un importante cambiamento nella loro formazione, passata da un duo (Max Klebanoff: voce, batteria – Derrick Vella: chitarra, basso) a un quartetto (Max Klebanoff: voce, batteria – Derrick Vella: chitarra, basso – Payson Power: chitarra – Steve Musgrave: basso).

Con la conseguenza di un potenziamento del sound evidente, migliorato complessivamente sotto tutti i punti di vista dai quali si può osservare un album di death metal. Sì, death metal e basta, giacché il combo canadese ha sviluppato uno stile meno ancorato ai dettami della vecchia scuola; alla ricerca quindi di qualcosa di più personale che non la mera riproposizioni di cliché triti e ritriti.

Uno scopo che si può affermare sia stato raggiunto, poiché “Manor of Infinite Forms” è un lavoro adulto e maturo, raffigurato da un disegno musicale coerente e immutabile lungo le sue sette canzoni, legate da un unico filo conduttore. Senza sfilacciamenti, passi falsi e indecisioni di sorta.

Tant’è che il platter si manifesta come un insieme compatto, coeso, in grado di riuscire a generare un impatto frontale di tutto rispetto. Non solo velocità, blast-beats e muraglioni di suono, però. Lo sforzo a livello di songwriting nel cercare una foggia musicale propria è stato notevole e si sente. “Manor of Infinite Forms” è pregno di un mood malsano, malato, particolarmente putrescente in occasioni più cadenzate, ove – addirittura – i Nostri non si fanno certo intimidire dallo sfiorare i confini dei territori del doom (‘Chamber of Sacred Ootheca’). Nei quali emerge la componente lisergica alimentata dai soli di chitarra della coppia Vella / Power ma soprattutto dal growling soffuso e animalesco di Klebanoff.

Detto sforzo compositivo per creare, con successo, uno stile finalmente riconoscibile in mezzo a tanti altri, non ha però determinato un eguale successo in termini di singole song. Pericolosamente simili le une alle altre, come incapaci di lasciare intravedere un proprio carattere, una propria identità. Scorrendo il disco, dopo due o tre brani si sa già che cosa ci si troverà davanti. Il che non il massimo, per indurre l’ascoltatore a trovare e cercare elementi di spicco in un lavoro sì profondo e articolato ma piatto.

Le cose funzionano abbastanza bene quando i ritmi sono elevati, quando cioè i Tomb Mold riescono a elevare il livello del proprio sound scuotendo con decisione le molecole d’aria attorno alle membrane degli speakers (‘Abysswalker’). Altrimenti, il calo d’intensità genera inesorabilmente il nemico n. 1 di ogni rappresentazione artistica di questo genere: la noia. Dopo pochi ascolti, insomma, non c’è più nulla da scoprire, in “Manor of Infinite Forms”.

Non rimane allora che consigliare lo stesso “Manor of Infinite Forms” solo agli appassionati devoti del metallo della morte.

Daniele “dani66” D’Adamo

 

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