Recensione: Mark of the Blade

Di Daniele D'Adamo - 25 Giugno 2016 - 19:44
Mark of the Blade
Band: Whitechapel
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2016
Nazione:
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89

I Whitechapel erano. I Whitechapel sono

Erano una delle migliori deathcore-band al Mondo. Sono la migliore deathcore-band al Mondo. 

Sì, perché la loro progressione tecnico/artistica, cominciata con il “Demo 1” del 2006, in dieci anni, è stata semplicemente impressionante. 

Via via che la carriera si è srotolata sotto i piedi di Phil Bozeman e compagni, si sono susseguiti album dai contenuti sempre interessanti, assestati su un trend evolutivo costante. Sino ad arrivare alla nuova creatura: “Mark of the Blade”. La sesta. 

Phil Bozemann… anche lui, probabilmente il migliore nel suo genere. Inumana mistura di growling e screaming, poderosa ugola che modella la musica con facilità irrisoria, piegandola al suo volere. È lui che trascina, detta i tempi, plasma la materia. È lui l’indomito condottiero che trascina i suoi adepti verso la gloria. Una prestazione spettacolare, unica nel suo genere. Caleidoscopica ma con un solo obiettivo: imprimere a fuoco, sulla carne, il marchio della lama

Così, proseguendo di un altro step verticale rispetto a “Our Endless War” (2014), i Whitechapel sfornano undici-canzoni-undici di valore culturale assoluto, spaziando a 360° in tutto ciò che è spaziabile in ambito deathcore. Con un comune denominatore: la potenza. Enorme, debordante, perfetta. Il suono che fuoriesce dagli speaker è vivo. Non appena l’elettricità si trasforma in onda di pressione, l’incredibile sound del sestetto di Knoxville riempie lo spazio fra le molecole d’aria. Le compatta, per una restituzione da enciclopedia del deathcore (‘The Void’). 

Stupendo, a tal proposito, il drumming di Ben Harclerode che, con il suo incedere mai uguale a se stesso, di fatto elargisce al ritmo un andamento da stop’n’go continuo. Certamente c’è la voglia di tentare soluzioni alternative all’ortodossia del genere, come dimostra ‘Bring Me Home’. E, dall’alto della classe compositiva dei Nostri, l’esperimento riesce in modo impeccabile. Ma è con capolavori come ‘A Killing Industry’ che i Whitechapel paiono assolutamente insuperabili. Giacché detta song, come lascia peraltro intuire il suo titolo, fa il verso al cyber death metal dei Fear Factory. Quasi superandolo in intensità, dinamismo, graniticità. Un’esecuzione cronometrica che non lascia adito ad alcun dubbio sul corretto posizionamento dei Whitechapel nella scala del deathcore: n. 1! 

Non mancando di omaggiare i propri fan con l’eccezionale strumentale ‘Brotherhood’, unico momento in cui, palesemente, c’è – pure – la conferma che anche nelle volute sinuose della melodia, loro sono lì. Sempre per essere i migliori. Brano peraltro dal mood spesso, consistente, cupo. Tagliente. Come una lama, come un rasoio. Come i Whitechapel.

‘Decennium’: la celebrazione dei due lustri di carriera. Canzone da ascoltare quasi a occhi chiusi per assorbirne l’armonica robustezza, per filtrarne le trasognati linee vocali in clean, per gustare quell’indefinibile velo di malinconia, per sentirsi attraversare l’anima dalla lama. Per morire. Per resuscitare. Per trasformarsi di nuovo in qualcosa di ancora migliore.

Perché, nelle loro corde, i Whitechapel hanno l’irrefutabile. Non è dato, di conseguenza, conoscere quale livello di creatività potranno raggiungere, in futuro. Forse non lo sanno nemmeno loro. Forse non c’è un limite.

C’è “Mark of the Blade”, ora.

Daniele D’Adamo

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