Recensione: Mark of the Necrogram

Di Daniele D'Adamo - 19 Febbraio 2018 - 16:39
Mark of the Necrogram
Band: Necrophobic
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2018
Nazione:
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80

“Mark of the Necrogram”: il ritorno del Necrogramma.

A distanza di cinque anni dall’ultima eco (“Womb of Lilithu”, 2013), riemergono dall’oscurità i Necrophobic, forti del rientro in formazione del cantante Anders Strokirk e della coppia di chitarristi Sebastian Ramstedt / Johan Bergebäck, uniti nell’affiancare il leggendario batterista fondatore Joakim Sterner nonché il bassista di lungo corso Alex Friberg.

Nati del 1989, i Necrophobic hanno partecipato alla scrittura della storia del black metal, nel casi in ispecie anche se attraversato da alcune venature death che, comunque, non ne hanno mai minato la fede natia, devota al metallo più nero e oltranzista. Ma è soprattutto la Scandinavia ad avere forgiato le armi della squadra di Sterner in maniera tale da rendere la band invincibile compagine nel combattimento per sopravvivere a certa mercificazione metallica. L’aria che si respira in Svezia, come quella norvegese, induce senz’altro a rendere il black metal più puro rispetto a quello proveniente da altre parti del mondo. Difatti, nonostante siano molte le realtà internazionali a produrre tale genere estremo (per esempio Francia e Stati Uniti), solo chi ha creato qualcosa la sa interpretare nel modo migliore. Gli altri, seppur bravi, restano e resteranno sempre dei secondi.

E allora, quest’atmosfera di rarefatta genuinità si respira ad abbondanti boccate in “Mark of the Necrogram”, ottavo full-length della carriera dei Nostri. È black metal adulto, quello del combo di Stoccolma, solidificato nella sua forma più cristallina. Massiccio, granitico e quindi mal disposto a legarsi chimicamente con le tante contaminazioni che l’hanno reso spurio dall’entità-base, come per esempio symphonic, atmospheric, raw, depressive, suicidal, e così via. I Necrophobic no, scappano da tutto ciò, rimanendo su una sostanza che ha le radici vecchie di quasi trent’anni ma che si è saputa adattare ai tempi che passano. La stupenda produzione che la Century Media Records ha saputo donare a “Mark of the Necrogram” è una delizia per le orecchie: il suono è corposo, pulito, preciso, ideale per trasmettere il marchio di fabbrica di una formazione che, malgrado siano passati così tanti anni dalla sua venuta al mondo, riesce a stare al passo con i tempi regalando un suono altresì vivo, moderno, sintomatico, anche, di una maturità ideale raggiunta da parte dei suoi musicisti. A cominciare da Strokirk, il cui scabro e roco scream segue linee vocali precise e non segmenti monocordi dalla semplice realizzazione costituzionale. Un vero cantante, insomma. Il che regala al quintetto nordeuropeo un valore aggiunto che si riscontra solo nell’Olimpo del black metal (Dimmu Borgir, Emperor, Mayhem e pochi altri).

Certo, con una siffatta filosofia, tesa cioè ad aderire quanto più possibile ai dettami di base del genere, impossibile aspettarsi delle novità sostanziali nel sound che, più o meno, è sempre lo stesso da “Womb of Lilithu”, indicativo tuttavia di una realtà unica e non replicabile. In questo casi è necessario che siano le song a dare il loro contributo per rendere un album davvero interessante. E così è: i Necrophobic variano alternando brani più cadenzati se non addirittura melodici (‘Tsar Bomba’) a vere massacri sonori (‘Sacrosanct’, ‘Pesta’, ‘Crown of Horns’, ‘From the Great Above to the Great Below’) tipici, invece, del fast black metal. Il cielo plumbeo e tempestoso si apre per consentire lo svolgimento degli spaventosi blast-beats di Sterner, che si stampano sulla barriera del suono per travolgerla. Ed è in questi momenti, a parere di chi scrive, che i Necrophobic dimostrano di essere una spanna sopra tanti altri: malgrado le folli, devastanti velocità del ritmo, tutto rimane perfettamente leggibile, assimilabile, fruibile al 100%. Per stordire, per annichilire.

Sintomo, assieme agli altri citati, di grandezza vera.

Daniele “dani66” D’Adamo

 

 

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