Recensione: Marrow of the Spirit

Di Emanuele Calderone - 2 Dicembre 2010 - 0:00
Marrow of the Spirit
Band: Agalloch
Etichetta:
Genere:
Anno: 2010
Nazione:
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83

A distanza di quattro lunghi anni tornano a farsi sentire con un nuovo full-length gli Agalloch, una delle band più atipiche ed interessanti dell’intero panorama musicale odierno.
Il quartetto proveniente da Portland, Oregon, ha dimostrato di essere una delle rare realtà capaci di mantenere un livello qualitativo sempre molto elevato ad ogni nuova release.

Il penultimo “Ashes Against the Grain” aveva lasciato a bocca aperta tutti i fan della band e aveva colpito buona parte della critica, grazie ad un songwriting decisamente ispirato. Le aspettative cresciute attorno al nuovo “Marrow of the Spirit” (questo il titolo scelto per l’ultimo nato) erano pertanto altissime.
Le speranze di trovarsi al cospetto di un ulteriore capolavoro sono dunque state esaudite? Sì, o quanto meno, se quest’ultimo parto non si attesta sul livello qualitativo del precedente lavoro, ci si avvicina molto.
Come nella migliore tradizione di casa Agalloch, anche “Marrow of the Spirit” è un album pregno di emozioni, atmosfera e sentimento; è un disco che rappresenta un’ulteriore passo avanti nella carriera di questi artisti che da sempre hanno rifiutato di proporre prodotti uguali l’un l’altro.
Analizzando genericamente questo nuovo full-length si può notare, sin dalle prime note della splendida “Into the Painted Grey”, un generale appesantimento del sound, che vira verso sonorità più vicine al black metal. Le sperimentazioni post-rock, che avevano caratterizzato “Ashes Against the Grain”, sono presenti, ma in quantità decisamente minore.
Le strutture subiscono una leggera semplificazione, rendendo l’album più diretto rispetto ai predecessori: ciò non significa, però, che il lavoro annoi. Grazie ad un song-writing di grande spessore, i quattro ragazzi di Portland riescono a muoversi con grande sicurezza, risultando sempre convincenti.
Le affascinanti linee di chitarra disegnate dal duo John Haughm/Don Anderson, a tratti quasi sognanti, mantenengono un’eleganza formale comune a pochi gruppi. La sezione ritmica diventa più robusta e aggressiva rispetto al passato, anche a causa dell’ingresso di Aesop Dekker, che prende il posto del defezionario Chris Greene. Le delicate tastiere incorniciano ciascun pezzo e contribuiscono alla creazione di atmosfere ora idilliache, ora soffocanti.
Il platter viene introdotto dai tre minuti abbondanti di “They Escaped the Weight of Darkness”, che presenta una base di violoncelli accompagnata dal cinguettio degli uccelli e dallo scorrere di un corso d’acqua sullo sfondo.
Improvvisamente uno stacco di batteria rompe la quiete: “Into the Painted Grey” è la più chiara dimostrazione di come il sound degli Agalloch abbia subito un’evoluzione. Il brano in questione rappresenta forse uno degli episodi in cui il black emerge con maggiore prepotenza, tanto da riportare alla mente gli Ulver del magico “Bergtatt”. Non mancano le splendide aperture melodiche, marchio di fabbrica di casa Agalloch, così come si ritrovano i lunghi e toccanti momenti strumentali che hanno caratterizzato, fin’ora, tutti i dischi della band.
Con “The Watcher’s Monolith” tornano alla mente quelle reminescenze post-rock tipiche del più recente passato. Il pezzo riesce ad imprimersi sin dai primi ascolti nella mente dell’ascoltatore. Va segnalato che, pur non essendoci novità di rilievo per quanto concerne la ricerca sonora, è impossibile non rimanere piacevolmente colpiti davanti alla passionalità e all’emozionalità sprigionate dalla canzone in questione. La track si snoda tra momenti di illusoria pace ed altri di grande tensione, sottolineati non solo dalle chitarre -che si fanno più robuste-, ma anche dallo screaming di John, estremo ma mai sopra le righe.
Tuttavia è con “Black Lake Nidstång” che i ragazzi mettono a segno il miglior colpo in questo album. I 17 minuti abbondanti sono uno concentrato di pàthos come non se ne sentiva da anni. L’incedere del pezzo per quanto esso assuma un andamento pesante ed epico, si caratterizza per un tono quasi dimesso. Il guitar-work diventa minimale, le ritmiche più dilatate e cadenzate; ad arricchire il tutto troviamo dei delicatissimi inserti di chitarra acustica. La voce, prima quasi sussurrata, diventa improvvisamente un lamento disperato.
Musicalmente risulta alquanto atipico il lungo stacco strumentale posto nella seconda metà del brano che spezza l’atmosfera creatasi nella prima metà.
Più di maniera è, invece, la quinta “Ghosts of the Midwinter Fires”, che per la prima volta non riesce ad imprimersi nella mente dell’ascoltatore come invece ci si aspetterebbe. Il brano in sé non risulta affatto sgradevole, anzi, ma pare lontano dalle vette emotive che caratterizzano le composizioni degli Agalloch. I nove minuti abbondanti scorrono piacevolmente, dando però l’impressione che la track non aggiunga effettivamente nulla di nuovo alla discografia del combo.
Il finale dell’album è di quelli che nessuno si aspetterebbe. “To Drown” parte lenta, soffocante come non mai: una chitarra elettrica sullo sfondo fa da appoggio a pochi accordi di chitarra acustica accompagnata da violini, che conferiscono un mood al contempo molto delicato e malinconico. Le parole sospirate da John e le melodie minimali ci conducono alla seconda parte del brano totalmente strumentale e anomala: i violini,  messi in risalto, accrescono quel senso di soffocamento e smarrimento che permea la track in ogni sua nota, fino ad arrivare alla parte finale, nella quale si può udire nuovamente lo scrosciare dell’acqua.
“Marrow of the Spirit” termina così, come era iniziato, lasciando un forte senso di disorientamento. Le emozioni che scaturiscono all’ascolto di questo disco non possono essere descritte con semplici parole, dal momento che un lavoro del genere, per poter essere compreso a fondo, va vissuto ed assimilato.

Per dovere di cronaca dobbiamo segnalare che l’album, pur nella sua estrema bontà presenta alcune (poche a dire la verità) ombre. Tra queste sicuramente quelle che si notano maggiormente sono qualche passaggio ripetuto troppo a lungo e un’eccessiva enfasi nel drumming, che talvolta sembra non sposare alla perfezione la proposta del quartetto di Portland.

Voler comprendere un album del genere con pochi ascolti è un’impresa ardua, quasi impossibile: Per poterne cogliere l’essenza più pura, va sentito più e più volte. Le sfaccettature sono molte, quasi infinite ed ogni volta si può cogliere un nuovo passaggio, un nuovo aspetto.
Il consiglio che si può dare in casi come questo è quello di fare assolutamente vostro il prodotto il prima possibile, senza perdere tempo.

Emanuele Calderone

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Tracklist:
01- They Escaped the Weight of Darkness
02- Into the Painted Grey
03- The Watcher’s Monolith
04- Black Lake Nidstång
05- Ghosts of the Midwinter Fires
06- To Drown

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