Recensione: Master Creator

Di Stefano Usardi - 23 Aprile 2016 - 0:00
Master Creator
Band: Sinbreed
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2016
Nazione:
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65

Ammetto subito la mia ignoranza dicendo che non conoscevo i Sinbreed: l’unico dettaglio che avevo percepito in giro per internet riguardo al gruppo teutonico concerneva la militanza in esso di alcuni membri dei Blind Guardian, nella fattispecie Marcus Siepen (da poco allontanatosi per via degli impegni alla casa madre) e Frederik Ehmke (costui tuttora tra le fila di entrambe le bamd). Ad ogni modo la formazione odierna del combo alemanno vede, oltre al già citato Ehmke alla batteria, Herbie Langhans alla voce, Flo Laurin a chitarra e tastiere e Alexander Shulz al basso.
Sempre curiosando nella rete vengo a sapere che questo Master Creator è il terzo album dei nostri, ulteriore tassello nella loro discografia fatta di classico power metal roccioso e quadrato, con abbondante uso di cori come la tradizione comanda. Avete presente “Shadowland” dei Nocturnal Rites? Ecco, siamo più o meno in quel territorio.

Apre le danze “Creation of Reality“, che da brava opener mette subito le cose in chiaro su cosa ci si debba aspettare: chitarre muscolari e melodie accattivanti, batteria veloce e quadrata e soprattutto la voce robusta e corposa di Herbie, scoperta piacevolissima per chi, come me, è stufo di vocine “a la Farinelli” che piazzano acuti un po’ dovunque (spesso a sproposito). Ad ogni modo la canzone scorre benissimo per tutti i suoi 5 minuti cedendo poi il passo a “Across the Great Divides“, che segue le stesse coordinate di power duro e puro scevro da compromessi, sebbene si conceda qualche sporadico rallentamento soprattutto nella sua seconda metà. “Behind the Mask” rallenta un po’ i ritmi, iniziando con tempi più scanditi che accelerano leggermente nel ritornello, ma qui ho iniziato ad avvertire i primi campanelli d’allarme: possibile che l’album sia tutto così? Le prime tre canzoni, per quanto belle, melodiche e grintose, sono forse un po’ troppo simili tra loro, mantenendo lo stesso schema senza porre grandi variazioni e risultando, alla lunga, un po’ prevedibili, ma ecco che arriva “Moonlit Night“, che sembra messa lì apposta per smentirmi. La canzone bluffa con una finta partenza aggressiva e un brusco rallentamento melodico, per consentire a Herbie un approccio più contenuto dopo le sfuriate precedenti. C’ero quasi cascato, lo ammetto, ma ecco che Frederik torna dalla pausa merenda e ricomincia a picchiare sulla sua batteria, trascinando il resto del gruppo in un brano che, alternando momenti più rilassati e improvvise accelerazioni, rappresenta la prima (anche se piccola piccola) variazione allo schema incontrato finora nell’ascolto dell’album.
La title track parte adrenalinica, come se volesse scusarsi per i rallentamenti della canzone precedente e decidesse, a questo scopo, di alzare il tiro per riguadagnare gli headbangers distrattisi poco prima: obiettivo perfettamente riuscito, visto che con “Master Creator” i Sinbreed sfornando una signora canzone, una cavalcata tutta cori ruffiana finché volete ma meravigliosamente efficace. “Last Survivor” beneficia di tempi più cadenzati e di un riff molto classico, ma la sostanza non cambia più di tanto: leggasi “cavalcata heavy con Frederik e Flo che fanno il bello e il cattivo tempo per tutta la sua durata”.
At the Gate“, invece, viene introdotta da un piano malinconico, concedendo un po’ di respiro dal precedente martellamento. Non temete, però, la canzone non è la classica ballatona strappacuore, e anche nei momenti più tranquilli le linee vocali di Herbie si mantengono abbastanza lontane da certi clichés, scadendovi solo leggermente nel finale. “The Riddle” torna invece su terreni più consoni ai nostri: la canzone si lascia decisamente ascoltare, sorretta stavolta da un riff oscuro e incalzante che in più di un’occasione pigia sull’acceleratore fino a sfuriare in un classico speed-metal vecchio stile.
Con “The Voice“, invece, incredibilmente introdotta da uno degli acuti di cui sparlavo all’inizio, i Sinbreed puntano tutto sulla melodia e su cori accattivanti, per una canzone facile facile che mi fa pensare ai Blind Guardian di “A Twist in the Myth“, il cui ritornello si imprime immediatamente nella testa. Un discorso simile si può fare per “On the Run“, che chiude l’album puntando su trionfalismo e cori tracotanti da fratellanza metallica che, francamente, ho trovato bellini ma un po’ stucchevoli.

I Sinbreed mi hanno parzialmente convinto, confezionando un album d’impatto, molto carico e godibile, ma il cui difetto principale è da ricercarsi secondo me in un’eccessiva staticità della proposta: a conti fatti bisogna aspettare la settima traccia per trovare qualcosa che si discosti dalla classica cavalcata in doppia cassa, e questo alla lunga potrebbe andare a detrimento delle singole canzoni che, soprattutto nella prima metà dell’album, si somigliano un po’ troppo tra loro. Niente di nuovo sotto il sole, dunque: capisco che, soprattutto in un genere inflazionato come il power metal, una proposta originale sia parecchio difficile da trovare, ma è altrettanto giusto non accontentarsi sempre della stessa minestra. L’album è buono, ben suonato e cantato in modo a mio avviso molto convincente, oltre ad essere ottimamente confezionato: se non fate caso al difettuccio cui ho appena accennato e in un album power cercate solo robuste cavalcate per fare headbanging in piena libertà, allora aggiungete pure 10 punti al voto finale e correte a comprare Master Creator, con buona pace della vostra cervicale.
 

 

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