Recensione: Master Of The Universe

Di Francesco Maraglino - 16 Ottobre 2016 - 0:05
Master Of The Universe
Band: Palace
Etichetta:
Genere: AOR 
Anno: 2016
Nazione:
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80

 

Se un ascoltatore non troppo smaliziato si trovasse ad ascoltare “Master Of The Universe”, platter uscito per Frontiers con il monicker Palace, senza conoscerne titolo, autori, note stampa e, soprattutto, anno di uscita, potrebbe pensare di trovarsi alle prese con uno degli indimenticati classici minori dell’AOR. Uno di quelli con quali i veri conoscitori di questo genere amano gingillarsi, citandoli per mostrare la propria competenza del genere. Oppure quell’imprescindibile perla nascosta di hard rock melodico U.S.A., magistralmente realizzata secondo tutti i canoni del genere, la quale però, essendo uscita nel 1990, fu travolta dal magma del grunge vendendo, all’epoca, tre copie tra i parenti dei componenti della band, malgrado non avesse nulla da invidiare a più noti esempi del genere musicale di appartenenza.
 

E invece no.

Siamo nel 2016
I Palace sono scandinavi.
E Master Of The Universe è un prodotto nei giorni nostri.

 

Eppure, gli ingredienti di quest’album sono quelli che hanno fatto grande il melodic rock negli anni ottanta: suoni lucidati, cori angelici, melodie svettanti, ritmica decisa senza strafare, chitarre solide ma laccate, momenti piacioni, chorus glassati, momenti più frizzanti.

Lo si capisce fin dalla tripletta iniziale, offerta dal leader Michael Palace (già noto per la collaborazione con Tony Hitchcock, First Signal ed altri) e dai suoi sodali: Master Of The Universe (la canzone) è, infatti, un uptempo dai cori irresistibili, con le tastiere sugli scudi. Cool Runnin’, ancora, lascia spazio a tastiere onnipresenti ma pure capaci di ricami delicati, per un altro brano incalzante e marziale dal cui ritornello, melodie, e ascia laccatissima non si può sfuggire. Man Behind The Gun, infine, fonde un incedere ammiccante con un mood più hard e con chitarre più grintose.
Analoghe atmosfere emergono dall’ascolto di No Exit, ancora dominata dalle note cristalline zampillanti dai tasti d’avorio.

Con Stranger’s Eyes, così come con Path To Light, ci troviamo, altresì, al cospetto di un gradevolissimo soft rock in cui le note delle melodie sgorgano come gocce d’acqua da una cascata, sebbene una sferzata d’energia sia qui fornita dalla sei-corde. Pure Matter In Hand percorre i sentieri del delicato soft rock, in una semiballad trapunta di terse tastiere e voci.

She Said It’s Over, di contro, batte i territori dell’AOR più frizzante ed ammiccante, e Young/Wild/Free, allegro e trascinante,  esibisce, addirittura, sfumature da commedia musicale.

In buona sostanza, tra le uscite in ambito melodic rock di quest’anno, Master Of The Universe, rappresenta, a nostro avviso, con la sua devozione al rock statunitense degli Eighties, ma pure con i suoi richiami al sound nordeuropeo e  (per lo sfacciato approccio alla melodia), a gente come Brother Firetribe e Fair Warning, un must per gli appassionati del genere. Senza inventare nulla di rivoluzionario, sia chiaro, ma rifacendosi con perizia e traboccante passione ai canoni dell’AOR.

Francesco Maraglino

 

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