Recensione: Maze of Existence

Di Andrea Bacigalupo - 27 Ottobre 2018 - 8:30
Maze of Existence
Band: Unorthodox
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2018
Nazione:
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80

Nuovo bel colpo per l’etichetta nostrana Punishment 18 Records, che mette sotto contratto i padovani Unorthodox (monicker un po’ inflazionato nella realtà, ma possiamo soprassedere), band fondata nel 2013 da Mattia Gatto al basso, Massimiliano “Massi” Berti alla batteria e Marzio Quagliato alla chitarra e al synth.

Nel 2015 il combo, arricchito della voce ruggente di Matteo Guidi, inizia a registrare il demo ‘Maze of Existence’, un insieme di brani Death/Thrash molto feroci impreziositi da sfumature dissonanti e sperimentali. Verso la fine del 2015 Mattia lascia il gruppo per essere sostituito, dopo quasi un anno di ricerche, da Alessandro Meneghini. 

UNho 450

Nel novembre 2017 la band entra in studio per registrare l’album di debutto, che prende lo stesso titolo del Demo e contiene la versione finale e rivista dei brani di quest’ultimo, più il capolavoro ‘Ipnosi Regressiva’.

Gli ‘Unorthodox’ sono ottimi musicisti ed hanno capacità compositive di alto livello, riuscendo ottimamente ad affiancare alla ferocia del Death/Thrash, tipo quella manifestata dai Possessed in ‘Seven Churches’, per fare un paragone (anche se il sound dei padovani è più moderno), elementi tipici del Rock anni ’70, senza smorzare l’impatto sonoro.

Voce al vetriolo, sezione ritmica esplosiva, con un basso in prima linea che sa essere duro ed ipnotico allo stesso tempo, assoli da brivido si fondono per creare qualcosa che va al di là della semplice violenza sonora, con brani ricchi, passionali e, soprattutto, coinvolgenti, con sezioni che rapiscono letteralmente. Valore aggiunto è l’uso del pianoforte, che introduce molti pezzi creando un’atmosfera angosciante e scura, ricordando un po’ quello che faceva Jon Oliva con i Savatage.

Maze of Existence’ è un album che sicuramente fa battere i piedi e muovere la testa, ma soprattutto è un’opera da ascoltare con attenzione e concentrazione, tanto è intrisa di sfumature che fuoriescono, all’improvviso o gradualmente, dai toni aggressivi dei brani.

Il Platter è composto da otto pezzi di struttura assai variabile, moderni ma anche trasudanti richiami dell’inossidabile Vecchia Scuola.

Il primo è ‘The Non-Existent Sin’, che inizia con il già menzionato pianoforte per poi diventare improvvisamente velocissimo e feroce oltre ogni limite; i cambi di tempo dominano e privano il pezzo di ogni struttura rendendolo imprevedibile. 

La seguente ‘Rotten Society’ procede alla stessa velocità, richiamando gli schemi compositivi di un tempo, impreziosendoli con degli assoli molto articolati.

The Mind Keeps the Madness’ è anticipata anch’essa dal pianoforte, cupo e trascendentale. Il pezzo è feroce, anche se meno veloce dei precedenti ed affida il finale nuovamente alle tastiere, rendendo il tutto improvvisamente tranquillo, ma non sereno.

La title Track, ‘Maze of Existence’ è un brano strumentale che spiazza e fa riflettere tanto è diversa dal resto dell’album: sezioni angoscianti e psichedeliche si alternano ad altre dure ed esplosive; l’assolo, accompagnato da un grande basso, magnetizza. Brano interessante, difficile da descrivere ma assolutamente da ascoltare.

Dopodiché si giunge alla già citata ‘Ipnosi Regressiva’, di oltre nove minuti e mezzo. Riff Metal e velocità, strofe furiose e refrain stoppati sono intervallati da una lunga sezione musicale che richiama il rock progressivo degli anni ’70, con chitarra solista e basso in grande sintonia, tanto che ad un certo punto quasi non ci si accorge, se si è al primo ascolto, che dalla chitarra l’assolo passa al basso. Poi il pezzo riprende la sua durezza ed accelera immensamente. E’ incredibile come gli artisti riescano a collegare due realtà musicali abbastanza distanti tra loro, come genere e tempo, rendendole un tutt’uno con estrema naturalezza. Come già detto, ‘Ipnosi Regressiva’ è un capolavoro.

Segue ‘Chronic Dystymia’, pezzo psichedelico che crea ansia fino a trasformarsi in un Death/Trash sanguinante e violento.

Siamo quasi alla fine: in ‘They Are Legion’ primeggia in tempo medio, con brevi passaggi di chitarra prog, mentre ‘Gears of Death’, che chiude l’album, è una continua trasformazione, passando da velocità a cadenze senza tenere conto di nulla. Chiude un pianoforte cupo e melodico.

Per terminare questa recensione bastano poche parole: gli Unorthodox hanno esordito alla grande, con un album incredibile, magari non per tutti ma comunque per molti. In un mare di gruppi tutti uguali loro sono riusciti a distinguersi. Bravi!!!

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