Recensione: Memento Mori

Di Andrea Poletti - 11 Dicembre 2016 - 6:06
Memento Mori
Band: Sahg
Etichetta:
Genere: Doom 
Anno: 2016
Nazione:
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79

Memento Mori: ricordati che devi morire.

La morte quale unica certezza della vita che passo dopo passo consumiamo e digeriamo senza offrirgli un valore, a volte ci offre il prezzo da pagare. Tutti siamo destinati a diventare polvere e così gli Sahg, in ricordo delle grande leggende del rock, hanno voluto ribadirci il monito, il manifesto del nostro cammino: tutti dovremo morire. Erano sull’orlo della definitiva sparizione come band dopo che uno dei fondatori, Thomas Tofthagen e il batterista Thomas Lønnheim l’anno scorso decisero di lasciare la band, ma ogni sofferenza ti rende più forte e sono tornati come l’araba fenice, probabilmente con l’album manifesto della loro carriera ad oggi. “Memento Mori” potrebbe non essere il miglior disco dei Sahg, ma riassume magistralmente il loro sentiero sino ad oggi andando oltre, molto più in profondità e portando la pesantezza del loro suono a livelli ad oggi mai esplorati. Una band sempre rimasta all’ombra di grandi nomi che ad oggi fortunatamente riesce a ritagliarsi lo spazio che merita, in quella fetta di nicchia di mercato che si rivolge per la maggiorparte a prog, doom e heavy senza barriere, una musica difficile da catalogare che proprio in questa sua “non identità” ritrova i suoi punti forti. 

Memento mori” è la porta verso il lato oscuro dei Sahg, un cancello socchiuso verso un mondo che prima risiedeva in latitanza nelle retrovie, dopo il climax pressoché psichedelico e spaziale di “Delusions of Grandeur” , oggi si scava in profondità dove quel teschio stilizzato ci ricorda che una volta tolta la patina superiore, siamo fatti tutti della medesima sostanza: siamo morti che camminano. Questo quinto capitolo possiamo vederlo come il più pesante e contaminato, il più oscuro ma anche paradossalmente il più accessibile a livello melodico; quella patina che in passato legava il gruppo a lidi strettamente doom-eggianti è andata a perdersi fortunatamente, valorizzando per la maggiore quell’aspetto più heavy-oriented tendente ad un marchio prog non più celato. Ogni brano ha una sua forte personalità e la carovana prosegue lentamente attraverso alti e bassi, composizioni di una capacità artistica invidiabile, che nella loro semplicità superficiale nascondo un mondo; il testamento di come per scrivere parti memorabili non servono giochi a tavolino, ma pura ispirazione. ‘Black Unicorn’ è buona come opener ma non lascia intravedere cosa accadrà dopo, poiché il singolo per il per il video promozionale serve sempre, ecco che proprio la canzone d’apertura a conti fatti diventa la traccia più debole dell’intero lotto; sempre bella ma in proporzione alle successive perde un pò il colpo. ‘Devilspeed’ ha un tiro micidiale, una perfetta combinazione tra headbanging sfrenato e melodie tanto maligne quanto efficaci; il cantato di Iversen rispetto al solito è leggermente più grezzo e marcio e si riesce a percepire qualche tendenza estrema ma la componente heavy-doom è per la maggiore, l’assolo centrale è da applausi e di più non sveliamo. Qui arriva una doppietta di lenti proto-psichedelici con una spruzzata doom che fa paura, sia ‘Take It to the Grave’ che ‘Silence the Machines’ portano il livello di oscurità ai limiti prima del “grand finale”; due brani da gustare in questa parte centrale che lasciano comprendere come dopo quattro canzoni lo spettro visivo del gruppo è qualcosa di immensamente vasto e stellare. ‘Sanctimony’ ha un riffone corposo, ciccione e grasso che richiama gli Sleep di un tempo mischiati ai Black Sabbath di metà anni settanta, geniale; anche le linee vocali scelte sono l’arma vincente, diventando un pezzo da gustare a pieno in modalità ritualistica. La sesta ‘(Praise the) Electric Sun’ è l’anthem semi-ballad dell’intero disco, una armonia lieve e soffice ci accompagna per l’intera durata come a voler uscire da un mondo sepolto, nella sua semplicità ha molto da raccontare. 

Arriviamo così alla combo finale che lascia intravedere una ‘Travellers of Space and Light’ che non aggiunge nulla ciò che stato detto sino a questo momento, se non perle ritmiche in mid-tempo che pare quasi un walzer in salsa metal; ma il boato finale per chiudere il disco silenzio è doveroso e ‘Blood of Oceans’ è l’apoteosi. L’ultimo brano è magico, la sintesi dell’intero processo compositivo di oggi dei Sahg; con l’aiuto del buon vecchio Einar Selvik i Wardruna entrano di prepotenza, andando a mischiare le carte in tavola per rallentare il battito cardiaco, sentire il riff che parte a 1:25 dopo l’intro è da pelle d’oca. Questo brano è l’unico ed il primo ad avere una parte cantata in Norvegse che svalica i giorni, le nebbie eterne e i ghiacci per spiccare il volo dove il mondo non ha orizzonte. Impossibile da descrivere se non a occhi chiusi, lasciandosi immergere in un mondo speciale ed incontaminato fatto di buio e spettri. Tutto fila liscio, non riusciamo a trovare grandi difetti a “Memento mori” per cui non rimane che…

Un disco bellissimo, non epocale ma che regalerà moltissimi momenti piacevoli e che ascolto dopo ascolto si riconferma nella sua interezza; i gusti sono singolari e definirlo il migliore della loro discografia è difficile, ma possiamo mettere la mano sul fuoco che “Memento Mori” ha le carte in regola per essere nella top ten di fine anno per alcuni di voi. La morte ci attende, stiamo cavalcando l’onda del destino verso una fine certa, ma lungo questo imprevedibili attimi che ci rimango prima di scomparire questi quarantaquattro minuti sono di una goduria infinita. 

Nessuno può dire con certezza che domani sarà ancora vivo.

Euripide

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