Recensione: Mercy Falls

Di Riccardo Angelini - 14 Novembre 2008 - 0:00
Mercy Falls
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Anno: 2008
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83

Sono ambiziosi e non lo nascondono. Al di là dello sfacciato moniker, i Seventh Wonder rappresentano un’ancora giovane realtà della sempre vitale scena scandinava. Non sono passati molto più di tre anni da quando ci capitò fra le mani il loro debutto ‘Become‘. Pur pagando pesanti tributi ad alcuni grandi nomi del settore (Symphony X, Royal Hunt, Vanden Plas), il disco metteva in luce buone qualità che il più maturo ‘Waiting In The Wings‘ ripuliva dai tratti più banali e spingeva verso nuovi orizzonti. Il messaggio per gli addetti ai lavori era chiaro: i ragazzi andavano tenuti d’occhio. Da allora sono passati due anni, e l’attesa non è stata vana.

Welcome to Mercy Falls

Mettiamo subito in chiaro un dettaglio cruciale: ‘Mercy Falls’ non è affatto un album innovativo. Nel corso degli anni i Seventh Wonder si sono costruiti una propria identità, emancipandosi poco a poco dalle influenze più evidenti, ma non hanno mai tentato esperimenti sonori particolarmente arditi. Al contrario, hanno scelto di concentrare l’attenzione sulla ricerca melodica, sulla strutturazione dei brani, sulla cura del dettaglio. E a conti fatti ci tocca dar loro ragione.
Come pochi altri dischi nel suo genere, ‘Mercy Falls’ trova la sua forza nelle canzoni. C’è poco da fare: quando un brano riesce ad avvincere, a fare viaggiare la mente, a trattenerla e cullarla e maltrattarla senza mai allentare la presa, né concedere respiro, allora vano diventa ogni discorso sulla maggiore o minore originalità della composizione, sul suo essere o meno “progressive”. Peraltro, se è vero che i Seventh Wonder non passeranno alla storia come la band più originale dell’ultimo decennio, vero è anche che la personalità non fa loro difetto. Quello messo a punto da ‘Mercy Falls’ è infatti un sound ormai distintamente riconoscibile, che trova fra i propri tratti peculiari la voce limpida e potente di Tommy Karevik e una sezione ritmica curata in modo quasi maniacale. A dettare i tempi su ogni singolo brano è il basso di Andreas Blomqvist: la sua straordinaria finezza esecutiva insieme alla strabordante personalità lo porta a primeggiare continuamente sul resto della strumentazione, chitarre comprese. Non che queste ultime compiano un lavoro di minor levatura, tuttavia non è raro che, persino durante i soli, i pattern del basso finiscano per ingaggiare spettacolari duelli con quelli delle sei corde, infiammando le pur lunghe sezioni strumentali. Discorso parzialmente distinto per le tastiere, che spesso si limitano a un prezioso ma meno appariscente lavoro di accompagnamento. L’approccio appare azzeccato, in quanto evita di saturare oltremisura un sound già piuttosto denso di par suo. Decisivo risulta inoltre l’apporto dei tasti d’avorio nella misura in cui contribuisce a evocare quell’atmosfera corale e quasi sognante che rappresenta uno dei tratti peculiari del sound made in Seventh Wonder.

Ma si era parlato innanzitutto di canzoni, e queste sono infatti le protagoniste indiscusse. La doppia introduzione rimanda di quasi sette minuti l’attacco della voce, ma da ‘Welcome To Mercy Falls’ in poi sarà un susseguirsi ininterrotto di potenziali hit, senza il benché minimo calo di tensione. Difficile citare un pezzo piuttosto che un altro: ‘Unbreakable’, ‘Paradise’, ‘Fall In Line’, ‘Hide And Seek’, ‘Destiny Calls’ sono tutti brani ispirati dalla medesima musa, ricercati ma mai esasperanti, distintamente riconoscibili grazie a progressioni strofa-bridge-chorus di grande impatto, fresche anche dopo decine di ascolti. Karevik si conferma interprete di grandissimo spessore, caldo e passionale, senza dubbio una delle voci più interessanti dell’odierno panorama progressive. La sua performance sulla commovente cornice acustica di ‘Tears For A Farther’/’Tears Of A Son’ è da pelle d’oca, i ruggiti sul refrain della già citata ‘Unbreakable’ semplicemente esaltanti.
Le composizioni, come anticipato, non attingono a una particolare originalità, e l’approccio musicale trova in questo senso corrispondenza in quello tematico. Il concept che collega i tredici brani in scaletta è infatti offerto da topoi piuttosto abusati in campo progressive, quello dell’incidente stradale e del viaggio introspettivo. Tuttavia, in un caso come nell’altro, la lettura che i Seventh Wonder offrono di temi tipici della tradizione è strettamente personale e, soprattutto, di altissima qualità.

Destiny Calls

Sarebbe quantomeno superficiale bollare ‘Mercy Falls’ semplicemente come “un buon album” e sbarazzarsene dopo un pugno di ascolti frettolosi per via della sua evidente rinuncia a pretese rivoluzionarie. L’invito al contrario è quello di dedicargli tutta la vostra attenzione, e non sorprendetevi se vi troverete ad ascoltarlo e riascoltarlo a ripetizione, senza mai trovare flessioni o note di troppo. A margine, si può forse cogliere l’occasione per osservare che ormai da qualche tempo a questa parte il cosiddetto “progressive metal” non rappresenta più la culla della sperimentazione e dell’innovazione in campo metal: le uscite realmente sperimentali e innovative sembrano ormai provenire da altri settori che con il prog in senso stretto hanno poco o fors’anche nulla in comune. Il ruolo che il prog metal moderno sembra invece in grado di svolgere, e molto bene anche, è quello di sviluppo non banale e aperto alle contaminazioni di sonorità comunque classiche, senza quell’ossessiva ricerca del’assolutamente nuovo o dell’ultratecnico che oggi non è più plausibile pretendergli.

In questo senso, dunque, il nuovo Seventh Wonder è senza dubbio un’opera di notevole spessore per la scena odierna, e se ci tratteniamo dal parlare di piccolo capolavoro è perché nel 2008 molto è già stato scritto, e col passato bisogna per forza di cose fare i conti. Se i Seventh Wonder sapranno diventare domani punti di riferimento della scena come lo sono le band che li hanno ispirati, è forse ancora presto per dirlo. Di certo le premesse sono sempre più incoraggianti. Intanto, tutti gli estimatori della melodia evoluta sono tenuti a rispondere senza esitazione all’appello. Del resto, anche chi non avesse troppa confidenza con il genere può avvicinarsi senza timore: quando si parla di buona musica è inutile piantare troppi paletti.

Riccardo Angelini

Tracklist:
1. A New Beginning
2. There And Back
3. Welcome To Mercy Falls
4. Unbreakable
5. Tears For A Father
6. A Day Away
7. Tears For A Son
8. Paradise
9. Fall In Line
10.Break The Silence
11.Hide And Seek
12.Destiny Calls
13.One Last Goodbye
14.Back In Time
15.The Black Parade

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