Recensione: Messiah

Di Daniele D'Adamo - 2 Giugno 2016 - 23:11
Messiah
Band: Elderblood
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2014
Nazione:
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80

Tremendi. Spaventosamente aggressivi. Violentissimi.

Sono gli ucraini Elderblood, alla seconda prova su disco in studio con “Messiah”, il quale segue il debut-album “Son of the Morning”, uscito due anni dopo la loro nascita. 

Gli Elderblood fanno parte della folta, oggi un po’ meno rispetto a due/tre lustri fa, di chi proclama il proprio paganesimo veicolandolo con il symphonic black metal. Come la Storia dimostra, tuttavia, tutti i generi – nessuno escluso – in cui è frammentato il metal, sebbene appaiano a volte in declino, trovano vigore quando una nuova band, rigorosamente agguerrita, fa nuovamente capolino dal più profondo underground. Gli Elderblood, benché abbiano una feconda attività live, in realtà sono composti di due musicisti-cardine: Odalv, batteria, e, soprattutto, Sua Maestà Astargh, autore ed esecutore di tutto, drumming escluso, appunto. Una scelta vincente, poiché un batterista umano trasfonde nello stile del suo ensemble la propria anima, la propria mente; calori che, inevitabilmente, evaporano quando si utilizza una drum-machine, seppur evoluta. 

Così, “Messiah” si materializza come un tornado, come una tempesta di fuoco che si abbatte con inaudita energia distruttiva contro i nemici, cioè la cultura occidentale che ha voluto soppiantare quella primordiale, barbarica, pagana – appunto – incarnata nelle terre e nei cervelli delle popolazioni autoctone. In questo caso, sviluppatesi a nord-est delle rive del Mar Nero. E nere sono le parole delle song di “Messiah”, centrate su concetti alla base dell’inversione: oscurità, Lucifero, caos. Mirabilmente inseriti in una matrice musicale senza fine, dai limiti spazio-temporali non visibili a occhio nudo. Ove le annichilenti orchestrazioni di Astargh (eccellente compositore di guitar-solo, inoltre), trasportate dalla velocità della luce dai blast-beats, raffigurano scenari apocalittici post-nuclear winter; circostanza percepibile a pelle nell’allucinata, maestosa, epica, ‘In Burning Hands of God’. Leggenda che prosegue lungo i righi ove sono state vergate, a sangue, le note dei cori leggendari che introducono la monumentale suite finale ‘Adamas Ater’

Tuttavia, è ciò che inizia, è che fa spavento. “Thagirion’s Sun”.  vertigini da hyper-speed, voci femminili che indicano l’esistenza di altre dimensioni, oscure. La feroce interpretazione vocale di Astargh travolge, azzera, nuclearizza, estirpa (beninteso, solo con la musica) le culture a lui estranee. Estranee al suo DNA, alla sua terra. Il muro di suono che egli riesce a erigere è impressionante per la sua indefinibilità dimensionale, per la sua invalicabilità, come se fosse una struttura nera per via dell’assorbimento fotonico. Come un buco nero.  Una singolarità fisica e matematica sul cui orizzonte degli eventi vagano le empie anime possedute (‘Devil in the Flesh’). 

Il guitarwork assomma riff sconquassanti a ricami melodici di gran rilievo, quasi a porre l’accento, a rimarcare che sul granito nero si possono incidere i simboli della rinascita barbarica. Sostenuto con enorme vigoria dalle spesse linee di basso, elaborate sempre da lui: Astargh. 

Implacabile nel marchiare “Messiah” con i simboli della continuità stilistica e della consistenza compositiva: tutte, e si sottolinea tutte, le canzoni del platter sono assolutamente interessanti e meritevoli di attento ascolto. Nessuna interruzione di tensione, nessun buco emotivo, nessun riempitivo.

Tutto “Messiah” è dannatamente buono: onore e gloria agli Elderblood

Daniele D’Adamo

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80