Recensione: Mexican Way

Di Marcello Catozzi - 2 Novembre 2013 - 18:02
Mexican Way
Band: Rain
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2013
Nazione:
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80

La famiglia Rain annuncia ufficialmente la nascita del suo nono figlio, registrato all’anagrafe col nome “Mexican Way”, e Truemetal non può certo farsi scappare la ghiotta occasione di sentirne i primi vagiti. Prima però di dedicarci all’ascolto, si rende doveroso un breve cenno biografico sulla formazione bolognese.

I Rain si formarono negli anni 80, proponendo fin dall’inizio un mix di Hard Rock e Heavy Metal, dando alla luce prodotti discografici di prim’ordine (fra i quali rammentiamo “Bigditch 4707” del 1999, “Headshaker” del 2003 e “Dad is dead” del 2008) e toureggiando in ogni dove come supporto ad artisti di caratura internazionale (Paul Di Anno, Michael Schenker, UDO, Rage, Wasp ecc.).
Dopo il lungo tour di celebrazione dei 30 anni di attività della band, con la contestuale pubblicazione di “XXX” (datato 2011), i Rain hanno deciso di prendersi una breve pausa dal genere che li ha visti protagonisti per così tanto tempo, dedicandosi a un nuovo progetto e sperimentando nuove e differenti sonorità: eccoci quindi arrivati al momento del concepimento di “Mexican Way”, ispirato a un leggendario viaggio in Messico con il desiderio di mostrare connotati diversi rispetto a quelli conosciuti ai più, proponendo una sorta di “unplugged rock” (così viene definito nei comunicati ufficiali della band), con liriche in spagnolo e in inglese e con quelle tipiche atmosfere “tex-mex” che si possono percepire dalla visione di film quali “El Mariachi” o “Dal tramonto all’alba”.

Con una notevole dose di curiosità accendiamo, dunque, il nostro lettore, deponiamo il sombrero e, già che ci siamo, teniamo pronto anche il ventilatore e un drink ghiacciato (tequila ovviamente), visto che si preannuncia un sensibile aumento della temperatura.
L’opener “Mexican way”, in effetti, porta una ventata di caldo e di spensieratezza: cantato in spanish, questo brano si pone come un inno alla vita godereccio e divertente, con un refrain che resta subito in mente e scorre via, agilmente cadenzato, invitando ad abbandonarsi al piacere e a vivere il presente.
Anche nella successiva “Hard proof” il tempo è sull’andante/mosso; sapientemente equilibrata in tutte le sue parti, questa traccia si distingue per un drumming alquanto trainante, per una pregevole trama di basso, per le parti vocali sugli scudi e per l’apporto di cori sempre ben dosati.
L’approccio di “Eleven days”, scandito da gustose note di pianoforte e chitarra, è molto soft grazie anche a un’interpretazione vocale particolarmente ispirata e modulata ad arte. Nel prosieguo, la voce trova sostegno nei cori molto “catchy” e adeguatamente curati e la canzone assume uno spessore sempre più sostanzioso, diventando più solida e corposa in un graduale crescendo, fino a sfociare in un guitar solo di grande personalità e carattere, alla Slash per intenderci.

L’architettura di “Fallen angel” è quella classica di una ballad, con un incantevole tappeto di chitarre che accompagnano le morbide melodie delle linee vocali, delicate e discrete. La parte centrale presenta un assolo acustico dal tocco spagnoleggiante, tecnico e suggestivo al tempo stesso, con il motivo dominante di immediato impatto, ruffiano al punto giusto grazie, anche, a un cantato a due voci ottimamente abbinate.
Con “Ride like the wind” arriva il momento del remake e delle citazioni (nella fattispecie: di Christopher Cross con una delle sue song più coverizzate, dai Saxon a Jorn Lände), che in questo contesto – considerata l’accennata ambientazione “tex-mex” – non poteva certo mancare. Proposta in modo fresco e originale, con ritmica avvolgente e assolo chitarristico di ottimo gusto, la canzone corre via in modo piacevole evocando scenari di allegria e di libertà.
“Whiskey on the route 666” ci riporta a viaggiare sulle strade polverose e soleggiate della zona di confine, sulla spinta di marmitte arroventate. Cantata in spagnolo, sprizzante energia e spensieratezza, la song evidenzia una performance vocale fiammeggiante, alla Bruce Dickinson. L’assolo acustico risulta di ottima fattura, mentre l’inserto di una suadente voce femminile nella parte centrale concorre a fare di questo brano un episodio variegato e originale.

Dopo il viaggio lungo l’assolata Route 666, è giunta ora di prendersi un po’ di relax con un’altra ballad molto calda e coinvolgente. “Bet that I lie” reca in sé le caratteristiche del Classic Hard Rock: vibrante e tosta pur nella sua dolcezza, procede rotonda e scorrevole, impreziosita da una voce accattivante e poliedrica nelle sue sfumature, accompagnata da arpeggi acustici ben congegnati.
Si riparte con una brusca accelerata impressa da “Tijuana jail”, grintosa e tirata fin dall’intro grazie anche a un’armonica energica e tagliente. Anche qui si respira un’atmosfera messicana, che trasuda calore e avventura; da sottolineare, inoltre, un guitar solo piacevolmente pirotecnico.
“Whitemoon” esordisce con i canoni della rock ballad: una doppia voce ispirata e toccante, delicata ma incisiva, un ottimo assecondamento chitarristico, un assolo di straordinaria intensità con qualche punta di hard, un’interpretazione espressiva commovente sono gli elementi distintivi di un altro significativo episodio sulla road map della Mexican Way.

L’ouverture di “Love in the back” procura una scossa di pura energia grazie a un riff grintoso e ossessivo, dal tocco zeppeliniano benché prodotto in versione acustica. Anche qui troviamo un cantato spinto e dinamico, un assolo gustoso e tecnico assistito da un basso sempre esuberante, che si diverte a giocare sul refrain del brano.
Con “Times like these” ritorna l’atmosfera pacata della love ballad di impronta AOR, contraddistinta da una prestazione vocale di profonda espressività e da un’impalcatura strumentale assai consistente, pur nella sua semplicità e immediatezza.
L’ultima fermata del viaggio ci regala una dose di adrenalina: “Bangbus” suona come un blues alla John Lee Hooker, sebbene lo stile del cantato ricordi un po’ i Van Halen. Anche in questo brano sono riscontrabili influenze Hard e Street Rock, nel segno del ritmo vigoroso scandito da un riff continuo e determinato, in linea con una trama di basso che imprime un tiro deciso dall’inizio alla fine.

Se l’intento dei Rain era quello di diversificare l’offerta, creando un prodotto originale e diverso, si può tranquillamente certificare il raggiungimento dell’obiettivo. La plusvalenza è rappresentata dalle sensazioni che scaturiscono dalle dodici tracce di questo album, capaci di emozionare sia quando si respirano le melodie romantiche delle ballad e ci si lascia pervadere dalla commozione, sia quando si stacca il piede dal freno per lanciarsi lungo la Route 666 e si gustano sonorità più hard e travolgenti.

Una sottolineatura di merito va senza dubbio ascritta alla produzione e agli arrangiamenti, equilibrati e moderni, in grado di far esprimere al meglio lo spirito “american/mexican style” che palpita in questo album.
In definitiva possiamo affermare che – per chi conosce i Rain (considerati i trent’anni di onorata carriera alle spalle) – “Mexican Way” arriva come una gradevole sorpresa, una chicca singolare da assaporare in tutte le sue sfaccetttature, e consigliamo pertanto a tutti (che si tratti di fedelissimi della band o di semplici appassionati di Rock) di abbandonarsi con animo spensierato e rilassato a questa inconsueta, appassionante avventura latina.

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