Recensione: Misanthropy

Di Daniele D'Adamo - 10 Marzo 2014 - 18:56
Misanthropy
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2013
Nazione:
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77

‘Blackened death metal’.

Una frase abbastanza comune, soprattutto in ambito underground, per definire lo scellerato incrocio fra black e death metal, tuttavia non utilizzabile per battezzare un genere/sottogenere. Il perché lo afferma la frase stessa, giacché o si tratta di black, o si tratta di death. E allora, a cosa serve citarla? Serve a tratteggiare con maggior precisione cosa succede quando il death, nella sua primigenia configurazione, si ammanta del nero sudario che avvolge in eterno il black. Un lenzuolo che, con le sue tetre propaggini, abbraccia entrambi, lasciando al primo la dignità di major e disponendo il secondo su un piano più basso.   

Forse un esempio rende meglio il concetto, e allora non rimane che ‘mettere sul piatto’ “Misanthropy”, debut-album dei lombardi Hiss From The Moat. Che, dopo l’intro come da rituale, con “Conquering Christianity” mostrano subito quale sia il paragone forse più corretto. Paragone che assume le sembianze della leggendaria creatura biblica che risponde al nome di Behemoth. O, per meglio dire, alla straordinaria invenzione di Adam Micha‘Blackened death metal’.

Una frase abbastanza comune, soprattutto in ambito underground, per definire lo scellerato incrocio fra black e death metal, tuttavia non utilizzabile per battezzare un genere/sottogenere. Il perché lo afferma la frase stessa, giacché o si tratta di black, o si tratta di death. E allora, a cosa serve citarla? Serve a tratteggiare con maggior precisione cosa succede quando il death, nella sua primigenia configurazione, si ammanta del nero sudario che avvolge in eterno il black. Un lenzuolo che, con le sue tetre propaggini, abbraccia entrambi, lasciando al primo la dignità di major e disponendo il secondo su un piano più basso.   

Forse un esempio rende meglio il concetto, e allora non rimane che ‘mettere sul piatto’ “Misanthropy”, debut-album dei lombardi Hiss From The Moat. Che, dopo l’intro come da rituale, con “Conquering Christianity” mostra subito quale sia il paragone forse più corretto. Paragone che assume le sembianze della leggendaria creatura biblica che risponde al nome di Behemoth. O, per meglio dire, alla straordinaria invenzione di Adam Micha? Darski più noto come Nergal. Sì, perché nessuno, come i polacchi, ha saputo e sa tutt’ora fondere mirabilmente death e black.

Riff corti e secchi, a volte quasi sincopati; roventi bombardamenti a tappeto operati da blast beats chirurgicamente precisi; accelerazioni; rallentamenti; stese di doppia cassa; voce stentorea, carismatica, a metà fra scream e growl; mood tetro, nero, oscuro; tematiche devote alla misantropia.

Caratteristiche, queste, che segnano a fuoco il sound degli Hiss From The Moat, dandogli una dignità ben superiore, sia a livello tecnico sia a livello compositivo, della maggior parte delle realtà odierne che bazzicano i sottofondi del metal estremo. Del resto ciò non è un caso, poiché i Nostri, oltre che essere formati da membri di band eccellenti (Hour Of Penance, Tasters, Doomsayer), si sono avvalsi della collaborazione di musicisti provenienti da altri campioni come i Fleshgod Apocalypse e i The Black Dahlia Murder. Una qualità a tutto tondo che emerge costantemente, corroborando di pura energia “Misanthropy” in ogni suo anfratto.

Proprio la title-track può essere eletta simbolo di questo modo di interpretare il death metal. “Misanthropy” è devastante, annichilente nella sua volontà di radere al suolo le misere costruzioni umane. Gli inserti ambient che raggelano il sangue (assieme alle brevissime strumentali “Intro”, “Ave Regina Caelorum” e “Outro”), poi, sono identificativi di quel nichilismo figlio dell’osservazione della società moderna. Ancora più spinta, se possibile, “The Path Of The Pilgrims”, che vola come un oscuro tornado per spezzare ogni resistenza all’incedere degli eventi, all’assenza di speranza, alla mancanza di felicità per un inesistente futuro. Il leggero tocco di melodia dato alla song, in più, libera proprio quell’emotività di cui è pregno il black. “The Descent From The Throne”, infine, chiude con le sue invocazioni esoteriche un trio di canzoni spaventose, tirate all’inverosimile, nelle quali – nondimeno – il combo italiano non perde mai la bussola di una precisione esecutiva assoluta.

Insomma, bravi!          
       
Daniele “dani66” D’Adamo
 

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