Recensione: Mondo medicale

Di Alberto Fittarelli - 10 Gennaio 2003 - 0:00
Mondo medicale
Band: Impaled
Etichetta:
Genere:
Anno: 2002
Nazione:
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75

Lo scioglimento dei Carcass ha causato un vuoto enorme nel cuore dei numerosissimi grind/death fans sparsi per tutto il globo: da allora una serie impressionante di cloni ha tentato di ripetere le gesta della band madre, con più o meno successo, ma senza quasi mai emergere per talento e personalità propri. Con questo ultimo album gli Impaled mantengono in vita la speranza, riprendendo a pieno lo stile del bellissimo “Necroticism” dei quattro inglesi ed unendovi parti abbastanza personali e convincenti.

Già un’occhiata alla tracklist ed alla copertina (censurata) ci dà un’idea dei temi trattati nel disco in questione: siamo sempre su testi presi direttamente da libri di patologia, nel pieno rispetto della tradizione; ciò che invece ci stupisce appena inserito il CD nel lettore è la produzione, pulita e potente come non mai: tutti gli strumenti emergono ottimamente, con un plauso alle due chitarre del combo, davvero molto attive e con ottimi spunti.

L’iniziale The Hippocratic Oath è un’intro in cui compare addirittura un pianoforte, per portare l’ascoltatore alla prima vera e propria song del disco, Dead Inside: quattro minuti di furia appena controllata, tra aperture melodiche delle chitarre ed un buon drumming di base. La voce di Ross Sewage, ex-cantante degli Exhumed, si assesta su due timbriche, una più alta (davvero molto simile a quella del grande Jeff Walker) ed il classico growl profondo, tipico di ogni gore band che si rispetti.
Ottimi episodi sono sicuramente anche la successiva Raise the stakes, dove appare addirittura qualche influenza proveniente dal black metal melodico, insieme a campionamenti di urla varie; la quarta Operathing theatre, la più “carcassiana” del lotto, che ricorda moltissimo la celeberrima Pedigree Butchery; e The worms crawl in, contenente dei riffs ultra-melodici, senza però perdere la pesantezza che caratterizza tutto l’album. Come già detto, in tutti i pezzi è il guitar work a fare la differenza, passando da momenti brutali ad altri più elaborati con grande classe.

Certo, stiamo parlando di un disco che riprende quasi esclusivamente cose già dette in passato, ma è da consigliare comunque agli amanti del grind/death in generale, anche di quello un po’ meno violento, dato che all’ascolto risulta sicuramente meno estremo e più accessibile di quanto potrebbe sembrare. Le idee qui dentro sono molte, non avrete la possibilità di annoiarvi, al massimo di cadere in un certo deja-vu: ma sono certo che correrete il rischio, pur di ascoltare un disco come non se ne sentivano da diverso tempo, nel genere.

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