Recensione: Mors Secunda

Di Daniele D'Adamo - 24 Dicembre 2016 - 23:59
Mors Secunda
Band: Terra
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2016
Nazione:
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80

La Gran Bretagna non è mai stata, tradizionalmente, terra di black metal. Almeno, se paragonata alla penisola scandinava, alla mittel-Europa e, ultimamente, alla Francia. Questo, tuttavia, non significa poi molto soprattutto in un’epoca, questa, dove la rete viaggia veloce ovunque, favorendo ogni tipo di scambio, anche e soprattutto culturale.

Il ragionamento fila in particolar modo se si discute dei Terra, mostruoso terzetto proveniente da Cambridge che, in clamorosa antitesi all’aria accademica che si respira in quel luogo, riesce a produrre black metal di grandissima qualità ma, in primis, di gigantesca profondità. La formazione, del resto, è anche giovane, nel senso che si è formata nel 2013. Nondimeno, sono bastati due anni di aggiustamenti per dare alle stampe due full-length in sequenza: l’omonimo debut-album nel 2015 e il neonato “Mors Secunda”.

Voglio vederti danzare sulla torbida marea del sangue.
Il rito dell’innocenza sta per annegare.
Verrà la morte seconda, e lo stagno ardente di fuoco e
di zolfo per gli esecrabili fornicatori.
Tu avrai il posto nello stagno ardente.
Ora nella città del mare la grande peste è giunta.
[Millennium, “La profezia”, 1996]

Così, è. 
Una marea. 
Il dolore, la sofferenza.  
La morte seconda. 
Quella spirituale.

I Terra con due sole song, due suite, ‘Apotheosis’ e ‘Nadir’, riescono a trasfigurare la realtà degli oggetti materiali per migrare nell’indefinito limbo in cui non esistono gioia, serenità, felicità. Sono le lande in cui governa Joyness, Imperatrice del Dolore e della Solitudine. Paesaggi desolati, desolanti, ricchi di nulla se non di assenza. Mancanza. Carenza assoluta di molecole che non siano quelle esclusive del prodotto della putrefazione. In “Mors Secunda” regna il caos, il disordine, la non-regola. Vampate al calor bianco cuociono lo stagnante, rosso liquido organico: sono i blast-beats del drumming di Luke Braddick che, come i fulmini, squarciano l’aria per estrarne l’ozono. Hyper-speed. Trance. Stordimento. Morte.

In certi momenti si potrebbe pensare ai primi Anaal Nathrakh ma così non è: i Terra fulminano black metal puro, vertiginoso, violentissimo, velocissimo. Lontano da echi hardcoriani, i tre spaventosi nocchieri dell’Apocalisse sterminano qualsiasi velleità deputata alla conservazione della specie. Poiché il loro scopo è diametralmente opposto: demolecolarizzare la carne nell’etere. Sparire, vorticando iper-cineticamente per tentare di allontanare, con la forza centrifuga, la disperazione. 

‘Nadir’, ancor più di ‘Apotheosis’, è il turbine definitivo della non-esistenza. Le linee vocali sono inumane, roche urla di afflizione che si alzano forti dal magma sonoro cui sono affondate, per cercare di accelerare quanto più velocemente possibile il passaggio dalla vita alla non-vita. Chitarra e basso roteano riff giganteschi, veementi, intricati e debordanti energia. Energia necessaria a generare la forza antigravitazionale per fuggire dalla Terra, dai suoi biechi abitanti, perennemente in guerra fra loro. Per forare lo spazio-tempo e atterrare nel purgatorio della demoralizzazione.

Misantropia allo stato puro. Introversione. Misoginia, anche, quasi a invocare ere pre-adamiche. I Terra cercano la distanza come assetati nel deserto, mossi dalla loro voglia infinita di fuggire da un Mondo in decadenza, in decomposizione, irrimediabilmente destinato a vedere il proprio tramonto. Vacua illusione di Amore, che non esiste da nessuna parte. Santificato dal sangue degli innocenti, assassinati per mano degli esseri umani stessi.

“Mors Secunda” non lascia spazio ad alcuna interpretazione: o si varca la soglia della morte seconda, oppure si resta intrappolati nella realtà antecedente alla morte prima. Realtà orrida che non lascia angolature a speranze di sorta per qualcosa che non giungerà mai.

Allora, meglio l’oblio, la dimenticanza, l’assenza, lo spezzettamento in atomi, la sparizione definitiva.

Joyness vince.

Sempre.

Daniele D’Adamo

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