Recensione: Mrã Waze

Di Elisa Tonini - 28 Gennaio 2019 - 0:00
Mrã Waze
Etichetta:
Genere: Folk - Viking 
Anno: 2018
Nazione:
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85

Quando si parla di America Latina spesso è impossibile non pensare a quelle hit di dubbia qualità che imperversano nelle radio e tv nostrane; eppure, sotto una fitta coltre di “Despacito” si celano tesori musicali notevoli. Dalla patria degli Angra e dei Sepultura arrivano i presenti Arandu Arakuaa, ovvero “Conoscenza dei cicli del cielo” o “Conoscenza del cosmo” nella lingua Tupi-Guarani. Il nome ci porta a riferimenti indigeni del Brasile e, infatti, vicino al territorio di una di queste tribù – Xerente – il chitarrista e fondatore Zhândio Huku è nato e cresciuto fino all’età di 24 anni. Fu naturale per lui venire in contatto con la musica nativa e la musica regionale brasiliana e nel 2008 nacque il gruppo. L’intento di fondo era quello di portare attenzione alla cultura ed alla lotta della gente indigena del Brasile ma anche al messaggio di riconnessione alla Madre Terra.

Ecco che gli elementi indigeni e della musica folk brasiliana si uniscono ad una base metal umorale ed imprevedibile. Brutali sonorità death metal, groove, thrash si contrappongono ad atmosfere sognanti e di ampio respiro mentre dei passaggi prog e delle colate doom fanno da ponte in uno stacco spesso netto tra i due “schieramenti” sonori. Il percorso musicale fin dalla fondazione si è dimostrato essenzialmente sempre molto coerente ed il nuovo “Mrã Waze”, terzo full-lenght dei nostri, non fa eccezioni.

Dopo l’ottimo “Wdê Nnãkrda” (2015), ci sono stati dei cambiamenti nella lineup. Fra questi, Lís Carvalho alla voce e piffero offre un valido rimpiazzo a NáJila Cristina, la precedente singer, autrice di feroci prestazioni growl come di tenerissimi clean. Il nuovo acquisto conferisce alla musica forse un animo più innocente nelle parti pulite mentre le eccellenti parti gutturali paiono affidate in toto o quasi a componenti maschili. La voce femminile pare in un certo senso evocare Madre Natura nel suo aspetto più generoso mentre le parti growl nell’aspetto più terribile. Il cantato roco del leader Zândhio Huku sembra invece fare da mediatore tra la natura e lo spirito umano grazie alla sua interpretazione dall’aria sciamanica. L’uso dei testi cantati in lingue indigene quali xerente, xavante, tupi e krahô esercitano una grandissima ritmicità oltre che una grande coerenza interiore. Dall’altro lato emergono all’occorrenza delle melodie che paiono richiamare un mondo “coloniale” a volte a contrasto con quelle del mondo indigeno, a volte perfettamente integrate ad esso (la presenza di uno non esclude l’altro). Il contesto sonoro che ne deriva è estremamente selvaggio, fuori dagli schemi ed in grado di richiamare una natura lussureggiante ma tutt’altro che silenziosa ed inanimata. In “Mrã Waze – “rispetto per la natura” nella lingua akwẽ xerente – a differenza del precedente lavoro si usano maggiormente passaggi folk/acustici e si enfatizzano, a tratti, certe melodie hard rock ed heavy metal. In questo senso impossibile non restare ammaliati da brani come “Îasy”, “Îagûara Kûara”, “Abaré Angaíba” ed “Huku Hêmba”, pezzi dotati di un’istintiva giovialità melodica ma tutt’altro che facili all’ascolto in termini di orecchiabilità e complessità strutturale.

Il trionfo delle sonorità folk acustiche si hanno in pezzi come “Sy-gûasu”, “Danhõ’re”, “Ko Kri”, “Gûaînumby”, il cui spirito fortemente contemplativo pare focalizzarsi su natura ed animali creati da dissonanti contrasti tra gli strumenti tradizionali e quelli elettrici. Le tracce in questione sono ariose, spirituali ma affatto prive d’energia. “Ko Kri” si differenzia da queste per essere un pezzo che pare ricordare fortemente un Brasile coloniale, in cui il sentimento indigeno sembra un filino messo in secondo piano.

La forza di “Rowahtu-ze” (“Insegnamento” in akwẽ xerente) è quella di illudere l’ascoltatore con le iniziali sonorità acustiche, cori spirituali e tribali per poi, a sorpresa, inferocirsi nel brutal death,groove. Con disinvoltura passa successivamente ad un’allegria estrema (quella “coloniale” di “Ko Kri”) ed al sogno più recondito. Simile a “Rowahtu-ze” è “Gûaîupîá” infervorata però da magmatiche e ferine schitarrate doom.

“Jurupari” (Dio dei Sogni in lingua Tupi) è il brano meno melodico di tutto il disco, il più minaccioso nelle sue sfuriate a tratti brutal death. Le rassicuranti parti folk acustiche e le ritmiche spensierate lasciano maggiore spazio ad un soffio gotico gelido e spettrale.

“Mrã Waze” consiste in 45 coinvolgenti minuti di altissimo livello, con una produzione che esalta perfettamente sia le sfumature limpide che quelle più sporche ed abrasive delle tracce. Idealmente vicini a certe cose dei Sepultura di “Roots” gli Arandu Arakuaa propongono un lavoro ed uno stile originale ed autentico. A parere di chi scrive ci troviamo di fronte ad uno dei gruppi più originali degli ultimi anni, con musicisti di grandissimo valore tecnico. Questo disco è la conferma del valore della band anche grazie al fatto che le melodie folk sono meglio integrate rispetto ai precedenti lavori. Forse la loro particolarità non li renderà adatti a tutti ma se vi conquisteranno è probabile che non vi lasceranno più.

Elisa “SoulMysteries” Tonini

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85