Recensione: Mysterium

Di Stefano Usardi - 27 Luglio 2019 - 10:00
Mysterium
Band: Manilla Road
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2013
Nazione:
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78

L’anno dopo aver esordito con gli Hellwell e a due anni dal precedente album dei suoi Manilla Road, quel “Playground of the Damned” vituperato da una produzione, diciamo così, discutibile, il compianto Mark Shelton (di cui oggi, ironia della sorte, cade il primo anniversario della morte) torna ad imbracciare la sua Warlock per il nuovo album della sua creatura più nota. “Mysterium”, sedicesimo album della compagine di Wichita (seppur del tutto rimaneggiata nella sezione ritmica), occupa un posto speciale nel cuore dello stesso Shelton per la sua connotazione piuttosto personale, dato che in esso trovano posto alcuni brani nati durante una vacanza in Scozia con madre e figlia, alla ricerca delle radici di famiglia. Tralasciando per un attimo l’aneddotica – ci torneremo comunque dopo – per passare a questioni più pertinenti, “Mysterium” si presenta come il classico prodotto Manilla Road del nuovo millennio, solido e compatto, introdotto da una copertina dark fantasy che, dopo quella a mio avviso non particolarmente ficcante del suo predecessore, torna ad esibire un concept bello minaccioso. Pollice alto, seppur con qualche riserva, anche per la produzione e il bilanciamento dei suoni che, pur senza essere proprio pulitissimi (dopotutto stiamo parlando dei Manilla Road, una produzione spartana ci deve essere da contratto, credo) sono comunque un buon passo avanti rispetto al passato recente, avvolgendo l’ascoltatore in un mantello sonoro pastoso e ruggente. Ironia della sorte, il più penalizzato da questo mixaggio risulta il comunque più che buono Bryan Patrick, le cui parti vocali risultano, in alcuni frangenti, troppo coperte dal resto del gruppo.

Partenza subito robusta e guerrafondaia con la poderosa “The Grey God Passes”, ispirata all’omonimo racconto del ciclo celta di Robert E. Howard, che dopo una rullata marziale snocciola tracotanza compatta e melodie maschie; tra riff sulfurei e raglianti, ritmiche quadrate e rallentamenti minacciosi, l’unica nota dolente della canzone è, forse, la resa del sunnominato Patrick, a cui capita ogni tanto di perdere la bussola affievolendo, così, parte della carica di un pezzo che, però, si mantiene comunque su ottimi livelli. Si prosegue sulla medesima rotta con la tellurica “Stand Your Ground”, in cui la vena di minaccia del gruppo si ammanta di una nuova cattiveria grazie a riff tesi, un vocione maligno e un tappeto ritmico insistente. Dopo la furia si passa alla quiete con “The Battle of Bonchester Bridge” ispirata da una serata di bevute pesanti (a quanto pare a base di birre locali) da parte di Shelton durante la sunnominata vacanza in Scozia. La traccia si sviluppa inizialmente come una ballata, solenne e dal piglio fiero, che di colpo si carica di enfasi con l’improvviso indurimento del suono nella seconda metà. La successiva “Hermitage”, un classico mid tempo roccioso ma un po’ ripetitivo, nasce dopo la meticolosa ispezione, da parte dello Squalo e della figlia Aly, del castello Hermitage di cui Shelton e famiglia erano fortuitamente gli unici ospiti. La traccia, di sei minuti abbondanti, incede lenta e costante ma senza particolari guizzi, cedendo il posto nella seconda parte a una sezione solista carina ma nulla di più da parte dello stesso Shelton. Un riff sabbathiano introduce “Do What Thou Will”, in cui si torna respirare una certa aura di minaccia che però, anche qui, sembra non voler mai affondare il colpo fino in fondo, limitandosi al compitino. I ritmi tornano a farsi corposi e fieri con la successiva “Only the Brave”, in cui i nostri tornano a dispensare la solita colata di metallo rovente che da sempre li contraddistingue e che si alleggerisce solo durante il ritornello, leggermente meno oppressivo. “Hallowed be Thy Grave” è una marcia insistente, inesorabile, in cui la sezione ritmica ha la possibilità di mettersi in mostra pur mantenendo tempi medi. Anche qui, come in “Hermitage”, mi è parso di sentire un po’ troppo mestiere da parte del gruppo, che però qui ci crede di più, dispensando una maggiore carica e tornando ai propri standard abituali. Con la ballata acustica “The Fountain”, forse il brano più ispirato dell’album pur essendo lontano dai canoni del gruppo, si respira un accogliente profumo di nostalgia e si viene cullati dalla voce di Shelton che sarà nasale finché volete, sgraziata finché volete, ma quando ci si mette riesce a trasmettere tutta la pace di una tazza di the fumante nel salotto di casa. A turbare l’idillio arriva la spiazzante “The Calling”, strumentale ambient di quattro minuti che porta la firma del signor E. C. Hellwell e che, con i suoi effetti e le sue melodie guardinghe, instilla nell’ascoltatore gocce di inquietudine, mantenendolo giustamente sul chi vive prima dei botti finali. “Mysterium è chiuso dalla title track, che torna a pescare tra le radici di Shelton raccontando la storia del suo avo Ludwig von Leichhardt, botanico ed esploratore misteriosamente scomparso nel continente australiano nel 1848 senza lasciare alcuna traccia. La lunga suite, di quasi undici minuti e mezzo e divisa in tre parti, inizia con un arpeggio velatamente sinistro che domina tutta la prima sezione, cullando l’ascoltatore in un leggero senso di allarme in cui si incastona il primo assolo di Shelton, che apre infine le porte all’ispessimento del suono nella parte centrale della traccia. Riff duri e tempi quadrati ne scandiscono lo sviluppo, aprendosi poi in un intermezzo dilatato e ipnotico screziato da un vago retrogusto eroico, in cui si torna a percepire l’arpeggio iniziale che, nell’ultimo terzo del brano, torna padrone della scena, seppur fiancheggiato da svolazzi quasi blues che si perdono, in chiusura, nel soffio del vento e nell’ululato dei dingo.

Mysterium” è un album solido ma fatto di luci e ombre, che nonostante non valga i capolavori del passato del gruppo di Wichita per via di una scaletta, a mio avviso, un po’ sottotono nella parte centrale riesce comunque a dire la sua grazie all’atmosfera antica, al tempo stesso torva e agguerrita, che trasuda dalle sue tracce. Io naturalmente lo adoro, ma mi rendo conto di essere spudoratamente di parte. E poi diciamocelo, dai: i Manilla Road proprio non ce la fanno a fare album brutti!

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