Recensione: Natural Born Chaos

Di Alessandro Di Clemente - 8 Dicembre 2002 - 0:00
Natural Born Chaos
Band: Soilwork
Etichetta:
Genere:
Anno: 2002
Nazione:
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82

Siamo di fronte alla quarta release ufficiale di questa tecnicissima band svedese di death metal melodco. Dopo un esordio ed un seguito in cui i nostri ci hanno propinato un sano e violento death metal contaminato dal thrash, personale, ben suonato ma non propriamente originale, già col terzo (A Predator’s Portrait) cominciano a seguire un percorso sperimentale il cui risultato, almeno fino ad oggi, è questo Natural Born Chaos.
Sperimentalismo è il trait d’union delle dieci songs che compongono il platter: death sparato a mille con chiare incursioni nel thrash violento caro agli amici Darkane e soci, stacchi quasi progressive, in cui è preponderante l’uso (di buon gusto a mio parere) delle tastiere, ritornelli con voce pulita molto “effettata” ma comunque scevra da qualsivoglia scream o growl.
Si parte diretti senza mezzi termini con Follow The Hollow il cui pre-ritornello viene cantato con una voce e presenta una ritmica di chitarre che mi hanno ricordato molto i Megadeth (quelli di Peace Sells… per intenderci) per poi passare al ritornello vero e proprio in semi-growl. Il gusto e la perizia con cui vengono sciorinati i soli di chitarra sono spaventosi.
Si passa poi così alla composizione meglio riuscita del lotto: As We Speak un concentrato di melodia, potenza, tecnica e violenza death…ergo la Soilwork song; dopo una strofa nel loro classico stile, con le chitarre mai continue ma in perenne variazione del riff portante(soprattutto a livello di plettraggio) si arriva al bellissimo ritornello, contrappuntato da milioni di voci celestiali iper-riverberate, in cui i Soilwork hanno dato il meglio del meglio.
The Flameout ricalca un po’ la forma-canzone del precedente pezzo, risultando un’ottima song ma carente di quella melodia da brividi che caratterizzava As We Speak, ma sempre attestata su buoni livelli.
Si passa quindi alla title-track: un mid-tempo stoppato molto Megadeth-iano sia nell’incedere delle strofe sia nel ritornello, cio’ che risalta è proprio l’uso della voce…nel ritornello parte quasi come se fosse uscita dalla mente dei Dream Theater per poi passare ad un certo Dave Mustaine, notevole davvero.
Mindfields, una quasi hard-core song, forse la più rozza, la più sanguigna pur mantenendo il trademark caratteristico degli svedesi ed il loro gusto musicale.
The Bringer comincia con il riff suonato da una chitarra pulita e una serie di chitarre in lontananza in feed-back per poi assestarsi in un mid tempo malinconico e “pieno di rancore”. La strofa sfocia sull’ormai solito ritornello cantato e non urlato; anche qui la melodia è azzeccatissima. Un interludio centrale molto prog.
BlackStar Deceiver è quella che mi ha lasciato più indifferente, non la considero una song di cattivo gusto, ma ormai dopo circa sei canzoni con la stessa struttura arrivare alla settima che oltretutto non ha una melodia vincente e memorabile…non aiuta molto l’uso dell’organo Hammond in alcuni punti.
Si arriva così a Mercuri Shadow, un’ introduzione e una strofa prog, quasi psichedeliche, un ritornello ben fatto cantato pulito con il solito uso massiccio di riverbero.
No More Angels è la penultima, parte con la tastiera che dipana una melodia che riporta alla mente le vecchie bands prog anni ’70; la canzone prosegue in maniera standard, fino al finale in cui inaspettatamente i nostri creano un arpeggio in classico stile old In Flames per partire con un solo hard rockeggiante, pre ritornello e ritornello per concludere una canzone senza infamia e con molte lodi.
Eccoci giunti a Soilworker’s Song Of The Damned ergo una delle migliori: una partenza “proggheggiante” grazie ad un sapiente uso di synth, per poi arrivare alla strofa con una chitarra che mi ha ricordato molto le migliori composizioni degli Stratovarius…giungiamo al ritornello veramente depresso e malinconico ma maledettamente ipnotico. Insieme ad As We Speak la migliore dell’intero album.
In conclusione insieme agli In Flames i portabandiera del rinnovamento death in scandinavia, forse meno spudoratamente (e direi anche con meno genio) sperimentali dei cinque di Goteborg, ma, non una, dieci spanne sopra chiunque altro (personalmente Dark Tranquillity in primis).

Tracklist:

1. Follow the Hollow
2. As We Speak
3. The Flameout
4. Natural Born Chaos
5. Mindfields
6. The Bringer
7. Black Star Deceiver
8. Mercury Shadow
9. No More Angels
10. Soilwork’s Song of the Damned

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