Recensione: Neverfade

Di Damiano Fiamin - 21 Gennaio 2014 - 10:47
Neverfade
Band: Vallorch
Etichetta:
Genere: Folk - Viking 
Anno: 2013
Nazione:
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68

Spolverate le cornamuse, accordate le mandole e lustrate le fisarmoniche: un nuovo tassello si aggiunge al sempre più variopinto (e affollato) mosaico del folk metal italiano: a stretto giro dalla pubblicazione del loro primo EP, “Stories of North”, superano l’agognato traguardo del debutto discografico i veneziani Vallorch. Vedendo quanto ci viene proposto oggi, in effetti, potremmo tranquillamente considerare l’autoproduzione precedente come un corposo assaggio volto a ingolosire i potenziali fan e creare aspettative nei confronti di questo nuovo album: prova ne è il fatto che, al suo interno, pur con leggere varianti e rimaneggiamenti, ritroviamo ben tre delle cinque tracce che componevano l’antefatto.

Se avete avuto modo di ascoltare l’esordio del sestetto, saprete già a cosa andate incontro inserendo nello stereo “Neverfade”; per tutti coloro che, invece, non hanno mai sentito parlare dei sei veneti, è obbligatorio un quadro di riferimento che permetta di inquadrare la proposta musicale di questi ragazzi: volendo restare all’interno dei confini della nostra penisola, possiamo affermare serenamente che i nostri portano in dote sonorità più vicine a quelle dei Furor Gallico che a quelle dei Folkstone. Preparatevi dunque a connubi dicotomici tra strumenti tradizionali, siano essi provenienti dall’humus culturale contadino (zampogne, fisarmoniche e fiati) o, piuttosto, dall’altrettanto fertile retroterra rock/metal (chitarre e basso elettrici e batteria); a coronare tutto, un ulteriore gioco di contrasti tra la voce femminile, pulita e melodica, e quella maschile, caratterizzata da un growl feroce e sporco.

I più staranno già borbottando a mezza bocca una serie di critiche prevedibili: questa è una miscela già sentita, non si prova mai ad andare oltre in un genere in cui l’innovazione non la fa certo da padrona. Critiche condivisibili ma che, in questo caso, colgono solo in parte le caratteristiche di questo album. A dispetto di tutto, infatti, il risultato finale non è affatto male; pur non brillando per originalità, i brani sono molto orecchiabili e godibili, sia nei momenti più lenti e melodici, sia nelle fomentanti cavalcate che paiono avere come unico scopo quello di smontare il collo dell’ascoltatore.
La produzione è abbastanza bilanciata, anche se alcune delle tonalità più alte, come le cornamuse e la voce di Tacchetto, sembrano soffrire in un processo di equilibratura che le svilisce rispetto alle altre frequenze dello spettro sonoro. Non siamo di fronte a una completa svalutazione, ma si ha l’impressione che gli acuti siano eccessivamente compressi e che non riescano a esprimere le loro potenzialità.

E quindi? Vale la pena investire tempo e denaro per ascoltare la musica dei Vallorch? Anche tenendo conto che si tratta di un debutto, la risposta è sicuramente si. Certo, mentre su alcuni aspetti basterà lavorare di cesello, su altri sarà obbligatorio dare un paio di vigorose picconate. Per il momento, il sestetto veneto può ufficialmente ritenersi annoverato tra i giovani di belle speranze. La sua situazione, però, è precaria: orde di gruppi con proposte musicali simili premono per ottenere il proprio posto al sole; i nostri, però, hanno dalla loro delle idee interessanti e non adeguatamente sfruttate.
 La personalizzazione della propria offerta sarà sicuramente un obiettivo duro; conseguirlo, però, consentirebbe alla band di tirare fuori quella marcia in più che gli permetterebbe di distaccare i contendenti. Non è affatto detto che i Vallorch riusciranno nell’impresa; le premesse, però, sono interessanti. Per ora, godiamoci questo esordio.

Damiano “kewlar” Fiamin

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