Recensione: Nine

Di Francesco Bellucci - 22 Giugno 2012 - 0:00
Nine
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Anno: 2012
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89

Nel 2005 i Circus Maximus avevano lasciato tutti a bocca aperta con la pubblicazione di “The 1st Chapter”. Nel 2007 avevano continuato a muovere entusiasmi con il più oscuro “Isolate”, al punto da essere scelti l’anno successivo dai divini Symphony X per il loro tour Europeo.
Il fulmine però non venne cavalcato. Perché? Perché il business va così e perché la vita, a volte, va così. Ci erano mancati questi ragazzi norvegesi dall’aria da amiconi del liceo, loro che in questi anni erano diventati grandi, come noi.
E’ passato un lustro ed i ragazzi ora sono giovani uomini, tutti con una famiglia, tutti con delle responsabilità da adulti, con qualche nuova cicatrice ed altre storie da raccontare. Ma tutti, nonostante i loro impegni, hanno mantenuto immutato l’amore per la musica ed il loro straordinario affiatamento. Cinque anni di gestazione hanno generato questo “Nine”, Un processo creativo svoltosi tra intensi scatti e lunghe pause, che per fortuna è giunto al termine.

NOTA:
Agli attenti lettori offro un avvertimento doveroso. Con questa recensione sentivo fosse mio dovere analizzare ed ordinare, spero in maniera sufficientemente dettagliata, canzone-per-canzone, quello che è uno degli album progressive metal più attesi dell’anno di una delle band più conosciute ed apprezzate dei nostri giorni. Ciò mi ha condotto a produrre l’interminabile giaculatoria sottostante. Per chi, comprensibilmente, non volesse leggere tutto il chilometrico testo, al fondo di esso troverà una sintesi pratica e sbrigativa di quanto così faticosamente mi sono impegnato a vergare. A coloro i quali invece decidessero di accordarmi un po’ del loro tempo, auguro buona lettura. Il nostro viaggio inizia ora.

“Forging”. Un lontano vento alieno si alza drammatico, come un sipario impalpabile sul proscenio. L’aria turbina confusa, mischiando distantissime note del carosello di un circo a suoni che non sono di questo mondo. Forse quel circo lo conoscevamo. Forse. Poi un minimale coro sintetico.
Aspettatevi 32 secondi di dislocazione sonora prima di arrivare alle prime note di questo tanto atteso terzo album dei Circus Maximus.
Il volume swell di una chitarra disegna solenne una melodia che confusamente ricorda il main theme di “A Pleasent Shade of Gray” dei Fates Warning. Sotto è un pavimento acustico di marmo bianco su cui si rifrangono organici suoni spaziali. Il volume si alza..

“Architect of Fortune”. Un selvaggio monolite sonoro è l’interludio di questo primo brano. Il ritmo ipnotico dei tom, coadiuvato da tastiere ancestrali richiamano, come un capobranco a due teste, gli altri strumenti che lentamente si svegliano dal lungo letargo, e rispondendo al richiamo unendosi in un potente riff in 4/4 dove domina la sette corde di Mats ed il basso di Glen, accordati in un plastico disegno ritmico nel quale punge più volte la velenosa e velocissima terzina in palm muting, seguita da un glissato orientaleggiante.
Il riff ritorna quello del’inizio del brano, mantenendo inalterato lo spessore ritmico. Il climax sale, complice il sapiente arrangiamento di tastiere che sfocia in una toccante e malinconica melodia, con il martello della doppia cassa che picchia insieme a alla chitarra ed al basso, in un unico tappeto di cemento. A questo si sovrappone il solo: lirico, tecnico, perfetto. Lo stacco strumentale che segue, in puro stile teatheriano, avverte che l’attesa è finita e che l’architettura sonora presto prenderà la sua vera forma.
Tornano evocativi i tom ed il basso in un pulsante tutt’uno. Finalmente entra in scena Eriksen: il cantato è profondo e opulento, il timbro è ambra calda. Nulla è cambiato nella sua voce, se non la predilezione su tonalità più centrali rispetto al passato.
Il sommesso sottofondo di tastiere, si trasforma in un elegante pianoforte accompagnato da una chitarra acustica sovraincisa ad una elettrica dal suono crunch. Questa prima strofa introduce uno struggente ritornello, con la tastiera che accompagna splendidamente il velluto di Eriksen, e termina lanciando l’intelligente variazione sul tema dell’ormai conosciuto passaggio strumentale: autisticamente, definitivamente, convintamente, algoritmicamente metal progressive. Efficacissimo.
Le acque si calmano per qualche secondo. Poi un lampo di hard rock dopato (03:58) apre sulla seconda strofa, nell’armonia identica alla prima, ma radicalmente ridisegnata ad enorme benefico dell’adrenalina dell’ascoltatore: la batteria è in un dissestante e asciutto 7/4, la chitarra marziale costruisce una poliritmia bellicosa e le tastiere spaziali ricamano ostinati lontani. Su tutto la voce di Michael, salita di tonalità e doppiata strategicamente nei momenti più appropriati, taglia pura e scintillante il muro di suono costruito della band. Il tutto si ripete una seconda volta, con le tastiere che furbamente cambiano suono e filo melodico, guidandoci inconsciamente verso le nuances timbriche più morbide del soffuso ed articolato bridge acustico, scosso nel mezzo da una eco di Opeth (04:47-04:50), cha accompagna la voce di Michael: il vero strumento solista di questo momento.
Poi tutto si ferma. Qualche nota passa sulla tela, lasciandola però immacolata e ben distesa ad accogliere il secondo momento acustico, introdotto da un’intima citazione post-rock (05:04-05:33) che a me ricorda tanto i Sigur Ros. Bellissima e meditativa.
Entra Eriksen voluttuoso, accompagnato da una chitarra acustica terzinata e da Finbråten che arrangia il momento in maniera sapiente, riproponendo la linea tastieristica dell’interludio ascoltato al principio del quinto minuto.
Lo strumming marino di chitarra acustica si inserisce per alzare il tiro, con delle belle percussioni in sottofondo. Michael impreziosisce la trama sonora che velocemente sta prendendo forma, sussurrando la soave linea melodica con una classe tale da non far nemmeno comprendere che con quattro note sale di tre ottave. In questo mosaico sonoro si inserisce infine il pianoforte di Lasse, offrendo il dovuto tributo ad un certo Mr. Pinnella. Il momento è semplicemente da brivido.
Ma il brano non è ancora finito, ed infatti con un rapido e muscolare crescendo entrano chitarra, basso e batteria trasformando l’armonia appena disegnata da Lasse in un epico e glorioso passaggio; ottimo trampolino di lancio per l’ennesimo interludio strumentale, dove la chitarra solista di Mats è il collante fra tre parti armoniche ben distinte.
La prima, spensierata ed essenziale, impreziosita dal drumming vario e misurato di Truls, è una fioritura solistica melodica e minimale, che termina con una divertita citazione Vaiana in ottave.
La seconda parte è solida e squadrata, ma inaspettatamente movimentata a livello armonico. Viene attraversata dal solo di elettrica molto avvincente per la varia e continua alternanza di figure ritmiche contenute al suo interno, e per gli ampi intervalli, in massima misura ottave, ottenuti con naturale scioltezza grazie ad una invidiabile tecnica ed al suono rotondo del pickup al manico.
Nella terza parte incontriamo l’armonia già ascoltata nel bridge acustico dal minuto 04:35, che suggerisce la base per la conclusione del solo. In esso viene esposta una parte dell’originario tema melodico. Il fraseggio diviene successivamente istintivo, per poi svolazzare tra leva, legati ed armonici artificiali verso l’ormai conosciuto passaggio prog, che per la terza volta sigilla quest’alchemica ecceità. Ed anche questa terza volta il momento è perfetto, funzionale, e l’epilogo trova la magica riuscita, richiamando a ritroso prima il ritornello ascoltato al min 03:07, poi il solo incontrato al min 01:54, ed infine la intro che sa di tempesta apocalittica presente nell’apertura della traccia.
Si compie così la caparbia ricerca dell’ultima circolarità matematica, dell’ennesimo parallelismo diagonale, dell’epilogo simmetricamente premeditato. Un brano stellare.

“Namaste”. Un marziale ed orientaleggiante riff di chitarra sette corde arricchito da un singolare suono di tastiera, in bilico tra biologico ed venusiano, apre le danze ed introduce il cantato dalla voce filtrata e doppiata un’ottava più bassa che scandisce la prima strofa. Il bridge mantiene l’andamento duro, con la potente voce di Eriksen che compete con le tastiere dal suono “awakeiano”. Segue il lirico ritornello ed un’interlocutoria parte ritmica con una voce noisy sul fondo. Bello l’intervento melodico di Mats che si muove su un terreno ora più calmo e quasi acustico. Entra poi il cantato con una linea melodica non proprio esaltante, e poi il bel ritornello con una chiusura ordinata e potente.
Un brano debole, scolastico, ordinario, non particolarmente esaltante e poco digeribile devo dire, nonostante la precisa prova dei musicisti, il lavoro ben fatto di Michael, e la costruzione armonica e melodica inappuntabile.

“Game of Life”. Una trascinante melodia di pianoforte su uno spesso  4/4 con un fill di china in levare si modifica in una seconda parte, dal ritmo gommoso e massiccio. Segue la prima strofa dal sapore decisamente pop, che rapidamente fermenta in un riff tellurico, orchestrato dalla sette corde e dalle tastiere, con unisoni e code armonizzati. La voce di Michael è gloriosa, qui e nel ritornello splendido ed ultramelodico, ricamato sulla linea posta ad apertura del pezzo, in questa parte smontata e ricomposta più ricca e più organizzata.
Bella finezza quella di modificare l’arrangiamento della seconda parte della seconda strofa in modo da affiancare ad Eriksen i capricci melodici della tastiere di Lasse (01:58-02:06), qui forse un po’ alto nel mixer. Chiude Mats con un calzante lick in legato (02:07-02:09) che annuncia il melodico refrain. Segue il riff massiccio incontrato nella ritmica ad inizio pezzo, che offre la base per l’ottimo solo di chitarra, sempre vario, melodico e tecnico, in cui glissati ed armonici Vaiani precedono fulminei legati stoppati alla Satriani, sviluppandosi poi in un fraseggio prima aggressivo e successivamente melodico, complici anche una bella serie di arpeggi eseguiti in tapping.
L’ennesimo tocco di classe a 03:36: i toni sfumano ed il ritornello della canzone viene sussurrato su un tappeto di organo, a chiusura del quale si inserisce una ruffiana chitarra pulita in chordal tapping a creare un abile crescendo che spinge istintivamente sulla chiusura. Qui ritroviamo la stessa struggente melodia in 4/4 dell’apertura, e Michael che regala svisate principesche, cori risoluti ed armonizzazioni insindacabili.
Un altro brano perfetto, dove l’apparenza facilona cela una complessità inaspettata e gratificante. Ecco cosa dà a queste tracce la loro sicura longevità. E molto molto altro.

“Reach Within”. Una intro di chitarra pulita, che riprende il ricercato e meditativo passaggio post-rock al principio del quinto minuto di “Architect of Fortune”, è qui incastonata in un paesaggio sonoro senza spazio né tempo. Poi un’ascesa diatonica conduce ad otto misure rettilinee di basso e batteria pulsante, seguite da una brillante melodia, con grasse chitarre ritmiche e luccicanti tastiere fuse con gli altri strumenti. Il cantato della strofa risulta vario ed arioso, con vanesi arrangiamenti da brano da classifica. Veniamo trasportati in estivi panorami sonori, con la voce di Eriksen che scalda ed illumina come un generoso sole di fine giugno. Poi morbidamente un ruffiano coro pop ci tuffa nel melodico ritornello attraversato dalle trame del passaggio già sentito al minuto 00:55-01:16. Al termine del ritornello un bridge radiofonico mixa equilibristicamente melodie commerciali con spirali tastieristiche (02:30-02:35) e interessanti variazioni armoniche. Il tutto votato al devoto e funzionale servizio dell’armonia. Splendidamente inserito a questo punto il secondo ponte strumentale (03:10-03:31) che viene a strapparci dalle morbide trame pop e ci scaraventa in un bosco notturno, con alle calcagna i lupi mannari più terribili che possiate immaginare.
Poi improvvisamente tutto scompare, come alla fine di un brutto sogno; quindi il sempre ottimo Mats in crescendo, con fresche idee in tapping e legato. Ma proprio quando tutto sembra detto, quando qualsiasi nota sembra chiarita e perfettamente compresa, quando tutto sembra oramai alle spalle, per noi l’ennesimo colpo di scena: l’inizio del quarto minuto ed i successivi cinquanta secondi semplicemente ti freddano. Cinquanta preziosi secondi di creatività prog stramelodica che riassumono con un potere di sintesi magistrale tutto quello che una canzone dovrebbe avere. Trascinante.

“I Am”. Questo sesto brano svela subito l’appeal dichiaratamente pop. La radiofonica intro strumentale lancia il cantato catchy della strofa, spartanamente portata avanti da basso, batteria ed un soffice tappeto di tastiere, su cui va ad inserirsi la chitarra crunch di Haugen, che arpeggia una triade super pop anticipando il succoso ritornello. Pregevoli  le linee melodiche rese ancor più belle dalla splendida interpretazione di Michael.
Breve ponte strumentale con divertenti ping pong tra tastiera e settecorde che, dopo il bel fraseggio di batteria gemello al riff di chitarra, precede la seconda strofa dove il lick di tastiera continua con la precedente figura e si amplia negli arrangiamenti, mentre la bella ritmica in power chords e palm muting della chitarra è doppiata dalla doppia cassa di Truls: magnifico l’interplay tra i ragazzi. Altro bridge simile a quello che precede il ritornello, qui arrangiato con una elettrica decisamente heavy e con il lancio del ritornello ad opera esclusiva di Mats con un viperino legato, perfettamente mimetizzato nella parte ritmica (01:52-01:54).
Dopo il ritornello segue un articolato interludio con due parti melodiche, la seconda delle quali (da 02:41) riporta alla mente i primi lavori del gruppo, soprattutto nella linea vocale – esemplificativo è il passaggio tra 02:56-02:59 – a cui segue l’apertura di Michael al sempre ben fatto solo di Mats.
Le luci si spengono sul brano più easy di questo album, non prima che i Circus Maximus spiazzino per l’ennesima volta l’ascoltatore facendo salire l’adrenalina e la fame di passaggi tecnici con un inaspettato ed esaltante unisono melodico in sedicesimi tra chitarra e tastiera, nel più rodato progressive metal style.
Il brano termina con il bridge ed il ritornello dal DNA geneticamente modificato, dove su tutti brilla la voce di Eriksen.

“Use”. Il brano si apre con un prepotente riff su un cronico up tempo. Ci viene concesso di prender fiato solo qualche secondo, spegnendo momentaneamente la doppia cassa di Lasse. Dopo le velate note di un koto distante, si riparte in quarta con un’autocitazione al minuto 00:36 (Sin da The 1st Chapter), che rimarrà la parte introduttiva di tutte le strofe: eccellente idea. Il cantato parte morbido ed intelligentemente doppiato, per salire nella seconda parte della strofa. Tutto è sintonizzato sui Dream Theater di “Scenes from a Memory” soprattutto le tastiere. La parte armonica e degli arrangiamenti dunque non meravigliano. Quello che piace è invece il ritornello diagonale, che nonostante la volontà di mantenere l’impatto molto duro e diretto, viene ottimamente calato nel brano. La voce di Michael è esaltante. Il resto perfettamente coerente. Ancora la strofa, ancora il ritornello diagonale. Breve pausa ora, qui il momento etnico dell’inizio viene atmosfericamente dilatato (02:51-03:17). Segue un rapido unisono tra Lasse e Mats, discorsivo ed infarcito di molteplici figure ritmiche. Ora uno spinto interludio ritmico, con i nostri che corrono compatti intrecciando le trame armoniche in veloci, dinamici e tecnici riffs. Il solo di chitarra è rapido e carnale, sviluppato su un’essenziale base di basso e batteria, ed una strategica chiusura armonizzata sul finale. Poi l’ultimo ritornello. Ascoltiamo con attenzione dal minuto 04:15 al minuto 04:25 (momento che al sottoscritto ha fatto venire i brividi): dopo una disarmante figura all’unisono, noterete una variazione della linea vocale sul finale ed il trascinante uso di ottave nell’arrangiamento, tali da rendere il più secco ritornello presente nel cd, un divino inno evocativo, glorificato dalla voce di Eriksen. Sicuramente il brano più compatto e duro dell’album.

“The One”. Con questo pezzo le cose sono chiare fin dall’inizio. Subito una parte cantata con alle spalle una suadente armonia arpeggiata, tagliata nel mix ai due estremi dello spettro sonoro, si riappacifica con l’ascoltatore dopo una decina di secondi, mutando in un riff pulsante su cui regna il cantato di Erikson. Segue un breve bridge ruffiano e commerciale ad aprire su un guerresco ritornello melodico, scosso dalla robusta compattezza del resto della band: un maiuscolo inno di belligeranti intenti.
Ora ecco la seconda strofa, prima con il tempo dimezzato e la ritmica glutinosa; poi con il tempo raddoppiato ed un nuovo arrangiamento, fa passare anche il bridge ed il galattico ritornello.
A metà canzone incontriamo un altro bridge radiofonico nuovo di zecca, arricchito da intelligenti armonie ed adulanti arrangiamenti, che si prolunga in uno stacco strumentale su cui si impianta il melodico e dosato solo di tastiere. Poi di nuovo il bel ritornello, protratto quasi ad libitum. Qui i Circus Maximus incolpevolmente propongono una brevissima armonizzazione del cantato che riposta alla mente i mai dimenticati Divine Regale (03:33-03:35). Molto bella anche la conclusione, a confezionare un altro sicuro singolo.

“Burn After Reading”. Questa splendida ed articolata composizione si presenta con un primo momento acustico diviso in tre parti. La prima di queste (00:00-01:01) ha le sembianze di una ballad con uno strumming terzinato di chitarra. La voluttuosa voce di Michael si muove agevolmente attraverso tonalità profonde ed evocative, supportato dall’ipnotica melodia di tastiere, armonizzate sul finale.
La seconda parte (01:01-01:35) è introdotta dal volume swell di un grosso power chord che inganna l’ascoltatore, promettendo un incattivimento sonoro che non arriva. Il brano invece permane su tonalità acustiche, con un dolce cambiamento d’armonia ed il cantato che sale di tonalità. Gustosi e sofisticati i suoni settatantiani di tastiere che doppiano la magica linea melodica del cantato.
La terza e conclusiva parte acustica (01:36-02:02) è arrangiata in modo da giocare con lontani cori cristallini e rimandi melodici di chitarre suonata con un effetto simil-ebow.
Segue un aggressivo intermezzo strumentale in tempo dispari(02:03-02:31).
Ottimo adesso il secondo verso, diviso in due parti:
–    (02:32-02:54) Nella prima in 5/4, la fantastica performance di Michael viene accompagnata  da raffinate linee di pianoforte, chitarra acustica e batteria, col basso di Glen più arrogante, ma perfettamente armonizzato col resto degli strumenti.
–    (02:55-03:20) La seconda parte è invece di natura più sperimentale e tellurica, in un ispido tempo composto (5+6+5+5+6+6+6)+(5+6+5+5+6+6+6+6) che risulta però sempre consono e mai oltremisura, merito del mestiere in fase compositiva, del drumming essenziale e della maiuscola prova di Eriksen. Seguono le note del ritornello, quasi operistico nell’interpretazione e nella bella chiusura di pianoforte.
(03:47-04:14) Qui incontriamo il già noto intermezzo ritmico strumentale in tempo dispari, ridisegnato in maniera ancora più dinamica ed aggressiva grazie al perfetto interplay tra tutti gli strumenti , soprattutto tra i due sempre ottimi fratelli Haugen.
(04:15-05:46) In questa parte del brano assistiamo ad una eclettica – ma sempre melodica ed equilibrata –  parte strumentale nella quale elementi ritmici e solistici vengono alchimisticamente messi assieme con coerenza ed un feeling invidiabile. Manifesta è qui l’influenza che i Circus devono ai Dream Theater, ma si badi bene che anche in questo caso non siamo in presenza di un’inconscia preghiera agli idoli, quanto piuttosto di un divertito tributo alla band newyorkese. Si rende a questo punto necessaria una decostruzione del momento musicale che sta per venire – a prima vista il più derivativo dell’intero album –  per coglierne le sfumature e precisarne alcuni passaggi.
Dividiamo idealmente il seguente interludio strumentale in 7 momenti differenti:
01.    (04:15-04:30) è un avvincente unisono theateriano, i cui manifesti riferimenti sono resi ancor più espliciti dai suoni di tastiera e dai velocissimi trilli in chiusura. Bello comunque questo primo movimento, di conscio riferimento non dogmatico, dove la dichiarata mutualità delle note è elaborata in maniera peculiare dall’intelligente ed unica personalità dei Circus Maximus attraverso un pregevole lavoro di contrappunto descritto da batteria, basso e chitarra ritmica sovraincisa.
02.    (04:31-04:41) un’altra compiaciuta citazione ritmica alla band di Petrucci del lontano Scenes from a Memory.
03.    (04:42-04:54) ecco quello a cui mi riferivo quando poche righe fa scrivevo di come ciò che rimanda ai Dream Theater di dieci-quindi anni fa, venga dai Circus reso personale e moderno. Qui ne abbiamo un perfetto esempio:  la fuga ritmica precedente evolve in un grasso blast beat.
04.    (04:55-05:04) ancora i Dream Theater a fare capolino. In questo stacco pieno di unisoni,  l’elevato intreccio tecnico delle varie voci fa risplendere di un virtuosismo mai fine a se stesso questi musicisti, che non perdono mai di vista gli intenti progressiva della melodia.
05.    (05:04-05:25) Mats è il protagonista della prestazione di questa quinta parte. Nel suo solo convivono equilibristicamente il Petrucci più plettratore e lirico, calibrato al Malmsteen più ispirato ed attento. Sequenze neoclassiche di arpeggi si alternano a melodiche parti in plettrata alternata, che trovano il pertinente compimento nel corpo del solo, con una lunga sequenza in pivoting seguita da altri arpeggi e sequenze scalari, sempre armonicamente funzionali.
06.    (05:26-05:35) 8 misure in 4/4 con la doppia cassa che segue figure in 5, e un apocalittico noisy di sottofondo.
07.    (05:36-05:47) altre 8 misure sempre in 4/4 segnano un’evoluzione della precedente ritmica, qui vestita di una precisione chirurgica: la figura eseguita dalla doppia cassa va in 6, il china in battere e le tastiere scandiscono un ostinato anfetaminico: nell’insieme un essenziale piacere metallico.
La rapida chiusura all’unisono lancia il verso, dove nella prima parte il caldo timbro di Michael sfiora i tappeti vocali di tastiera. Nella seconda parte del verso invece entra la batteria in 6/8 e gli psichedelici cori digitali, corroborati poi da una ritmica di basso e chitarra. Successivamente l’operistico ritornello melodico e carezzevole lancia con il più classico stilema hard rock il bellissimo solo, encomiabile per la perfetta tecnica esecutiva, ma soprattutto per l’intelligente e lirica scelta delle note.
I giochi sono compiuti, consumandosi nella titanica chiusura in 6/8 con le tastiere che disegnano una melodia epica e fiabesca su una armonia corale (la stessa offerta come base alla seconda parte del solo). Il finale è affidata ai morbidi accordi di pianoforte, nella più nobile ed elegante tradizione AOR.
Uno dei pezzi simboli di come sia cambiato il rapporto della band con i loro primi punti di riferimento. Perfetta l’interpretazione di Eriksen. Perfetto il resto della band. Un pezzo galattico.

“Last Goodbye”. L’ultima traccia dell’album si presenta come una suite di poco meno di dieci minuti di durata, omogenea e varia. Una melodia di tastiera dal suono caleidoscopico ci accoglie serena e paciosa. Come pezzi di un vecchio puzzle si ricompongono familiarmente i tappeti di tastiera, collante tra la melodia iniziale e gli accordi di acustica appena inserita. E’ questo il contesto ideale per inserire l’intervento solistico di chitarra, dal suono caldo e per una volta scarico di saturazione. Mats conversa amabilmente con l’ascoltatore, descrivendo una melodia agile e gioiosa che ben presto sfocia nell’appassionante ritornello strumentale, arrangiato come un perfetto e radiofonico brano patinato.
Il finale di questa prima parte strumentale lancia in maniera perfetta la strofa melodica. Interessante il  7/4 di Truls, egregiamente coadiuvato dalla ritmica gemella di basso e chitarra, e da un sommesso ciangottio di tastiera.
Molto bello anche il finale della strofa, con il cantato strategicamente doppiato ed il folgorante interludio (02:19-02:32), costruito su un fluido tempo composto che a me piace contare così: 7+4+4+7+3+4.
La seconda strofa si muove sulle medesime coordinate armoniche della prima, qui però steroidizzate da un colloso riff poliritmico di Mats, Glen e Lasse, fuso col fil in 7 di batteria. Molto interessante questa variazione sul tema, che trova la furba e naturale conclusione nel brillante ritornello radiofonico, in bilico tra le melodie volutamente commerciali ed un esaltante sound rock. Inutile dire quanto la voce di Michael appassioni, rendendo il ritornello una piccola perla da classifica.
(03:35-03:54) questa terza strofa, divisa in un’iniziale statica parte eterea durante la quale ci accompagna la suadente voce di Eriksen sopra un tappeto di tastiere, ci traghetta verso un breve, inaspettato e guerriero passaggio armonizzato (03:54-03:58).
La parte seguente della strofa, dall’identica armonia, prende vita su un “imperfetto” tempo dispari di batteria (7+3+3+7+5+4)+(7+7+7+5+4+4) con la chitarra e il basso in poliritmia ed un rassicurante tappeto di tastiera che cesella e compatta discreto. Questi passaggi, presenti in più momenti nell’album, sono sempre vari e fantasiosi, edulcorati dal playing di Truls, essenziale e piacevolmente accordato alle esigenze di compattezza delle canzoni.
(04:26-05:03) Un interessante momento strumentale riporta alla mente i primi Pain of Salvation, con drogati e malinconici passaggi ritmici, è qui impreziosito dal bel loop ribattuta di chitarra, che punta poi su un’ottima fuga solistica, defluendo liquido in un passaggio progressivo dal vago sapore vintage (05:24-05:36).
Inatteso il bridge ultramelodico e popy che segue, dove Michael lancia manieristicamente compiaciuto il secondo assolo di chitarra, sempre ispirato. Gustosa l’autoironica citazione nell’intervento di Mats della frase finale dell’arcinoto solo di “Carrie” degli Europe.
Tutto si placa ed un crescendo di tastiere ci traghetta all’ultimo ritornello, riletto da un’inventiva  frizzante e ruffiana. Un modificato impianto armonico, l’inserimento di unisoni tecnici e sottili variazioni nella melodia e negli arrangiamenti, trasformeranno il già perfetto refrain in un passaggio ancor più bello ed avvincente. Travolgente il finale corale che, come spesso succede in quest’album, piacevolmente inganna. Un’ulteriore ed inaspettata sorpresa infatti è dietro l’angolo.
Possibile andare in radio con un brano di dieci minuti se non sei i Dream Theater? Dopo questo ascolto penso proprio di sì, per nostra fortuna.

IN SINTESI:
“Nine” è un album autentico, all’apparenza fatto di consonanze semplici, le quali dopo i primi ascolti si finisce inavvertitamente per possedere, e mai più perderle.
E’ però solo con una paziente esplorazione che esso svelerà il favoloso mondo nascosto al suo interno. E quando tale meccanismo sarà compiuto, l’ascolto finalmente diverrà il moltiplicatore di continue epifanie.
Solo allora infatti “Nine” parlerà per sbriciolare le vostre difese, infilandovi una mano nel torace per strapparvi il cuore. Poi ve lo mostrerà, pulsante, e voi gli vorrete anche bene mentre lo fa.
Mai prolisso, mai autisticamente derivativo, sempre alla ricerca di una lucida volontà ordinatrice, “Nine” è decisamente il giusto risultato del tempo trascorso. Un lavoro maturo, dove per fortuna non c’è la voglia di  stupire, ma la ragionata consapevolezza delle proprie capacità, funzionalmente dosate per creare emozioni, grazie ad una prova a dir poco maiuscola dei ragazzi ed al loro sfavillante interplay.
Con la pubblicazione di questo album non possiamo non riconoscere ai Circus Maximus la personalità ed il carisma che negli anni si sono faticosamente guadagnati e che in passato, forse a ragione, gli sono stati spesso negati.
Il flavour pop aiuterà a guadagnare nuove fette di pubblico, mentre gli imperdibili equilibrismi tecnici, le telluriche scorribande metalliche in guerreschi tempi dispari, combinate alle ricchissime melodie ed ai superbi arrangiamenti, consolideranno i vecchi estimatori della band norvegese.
Il suono e la produzione sono strepitosi, i momenti più articolati sono dosati con sapienza e maturità, i brani sono incredibili.
Sperando in un benevolo placet del lettore, con “Nine” mi arrischio a parlare di “AOM” (Adult Oriented Metal) dalle pesanti influenze progressive.
Dove dunque è scritto che un grandissimo album debba essere per forza rivoluzionario? E cosa si intende per rivoluzionario, spesso confuso col meccanico sforzo di spostare la metaforica asticella qualche centimetro più in alto? Sicuramente “Nine” non è un album rivoluzionario ed anche se, lo confesso, qualche volta mi stava per scappare, è più giusto che di capolavoro si parli solo a distanza di tempo. O forse è giusto che di capolavoro parli solo il tempo trascorso.

Devo però suggerire vivamente l’acquisto di questo lavoro, perché sarà l’unico modo di ritrovarsi tra le mani la prova che se la perfezione non è di questo mondo, proprio in questo mondo alla perfezione ci si può andare vicini, e molto.
Un album stellare.

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Tracklist:

01. Forging;
02. Architect Of Fortune;
03. Namaste;
04. Game Of Life;
05. Reach Within;
06. I Am; Used;  
07. The One;
08. Burn After Reading;
09. Last Goodbye

Line Up:

Michael Eriksen – Voce
Lasse Finbråten – Tastiere
Mats Haugen – Chitarre
Truls Haugen – Batteria
Glen Cato Møllen – Basso
 

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