Recensione: Nordstjärnans Tidsålder

Di Daniele Balestrieri - 7 Settembre 2002 - 0:00
Nordstjärnans Tidsålder
Band: Månegarm
Etichetta:
Genere:
Anno: 1998
Nazione:
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85

Sono sempre più sorpreso di come una band come i Månegarm non abbia mai raggiunto il grande pubblico. Inspiegabilmente passata in sordina per tutti questi anni (e il loro primo demo risale al 1995!), questo prolifico quintetto svedese (orgogliosissimo di esserlo, tra l’altro), ha sfornato due album uno migliore dell’altro! Attualmente non saprei bene definire nemmeno il motivo per cui non siano saltati sulla bocca di tutti come hanno fatto band dello stesso tipo/produzione (Finntroll, tanto per dirne una), e la cosa rimarrà per me sempre inspiegabile.

 

Probabilmente è un difetto di distribuzione da parte della Displeased, probabilmente il fatto che abbiano un nome così scoraggia le persone, probabilmente perché nessuno se ne è mai realmente interessato, non capisco. Sta di fatto che quando ho ascoltato per la prima volta un loro album (ed è stato Havets Vargar, già recensito) rimasi folgorato da tanta ricchezza e abilità nel mettere le cose giuste al posto giusto. Poi una band che fa uso di Verwimp per le proprie copertine (questa esclusa) è una band che comunque mira decisamente in alto, e che diamine non capisco perché non vengono citati continuamente, sia nell’ambito del black, sia nell’ambito del folk, che nell’ambito del Viking, dove grazie a Odino sono discretamente conosciuti, forse perché le band alla fine sono sempre le stesse.

 

Veniamo a questo Nordstjärnans Tidsålder, il loro primo album, datato 1998. Il CD si apre immediatamente con una intro di pianoforte molto atmosferico, un simbolo abbastanza chiaro di black già contaminato da altri fattori più melodici o dichiaratamente folk. Da qui in poi è tutta una caduta black potentissima, greve, violenta, con chitarre martellanti al limite del cacofonico e screaming malvagio, maligno, che niente ha da invidiare agli Emperor o agli Immortal. Insomma, la base black è in assoluta tra le più maligne del panorama Viking, e rende questo album certamente una delle produzioni più estreme del genere. La cosa in assoluto più godibile di questo album interviene nei numerosissimi stacchi folk, che sono di una varietà impressionante, e soprattutto intervengono quando meno uno se lo aspetterebbe. Grandissima novità, quasi unicum nel genere, è l’introduzione di una voce femminile, stessa voce che hanno utilizzato in Havets Vargar. Questa voce potrebbe tranquillamente scandalizzare i puristi del genere, tra i quali mi inserisco volentieri.

 

Il problema è che questi inserti femminili sono messi così ad arte che è praticamente impossibile odiarli o non apprezzarli, anche perché il contesto spesso e volentieri è così dannatamente folk da essergli decisamente concesso di tutto. E oltre alle voci femminili non potrete non apprezzare i grandi cambi di tempo che introducono gli strumenti più vari, dalle chitarre acustiche ai flauti folk, dal munnharpe ai violini, il tutto mai intrusivo, ma continuamente martellato da una batteria vigorosa e da chitarre spaventose. La commistione è così interessante, e così fantasiosa, varia, che durante tutto l’ascolto non vedrete l’ora di scommettere su quale sarà il prossimo inserto folk, come si presenterà, quale sarà il suo tempismo, di quale strumento si avvarrà e quanto durerà, e quali saranno le sue evoluzioni. Le canzoni sono piene, stracolme di diversioni, tutte affogate in un mare di black turbolento e suonato con grande arte, che davvero mi ha lasciato senza fiato. Un grande concetto folk suonato con classe e durezza. Insomma, un progetto Viking di assoluto prim’ordine, proprio come io intendo il viking: una base black mozzafiato condita da venature folk e cori come Odino comanda, e sempre vorrà comandare. Potrei portare milioni di esempi in ogni singola canzone, ma scriverei un poema infinito: porto semplicemente una doverosa osservazione, ovvero la canzone Ymer, che è quasi del tutto folk, senza cantato black, bensì tutta articolata dalla brava vocalist femminile.

 

Che dire, un album davvero sorprendente, per certi versi anche più equilibrato di Havets Vargar. Certo, la produzione non è un gran ché. La registrazione è bassa e un pelo sporca, ma non solo a me non interessa niente, ma trovo anche che questo genere può solo che trarre beneficio da un simile trattamento, un po’ come succede agli album di Bathory.

 

Il cantato è interamente in svedese, così come i titoli di tutti i loro album e i titoli delle canzoni. Questo è un concept sull’Edda di Snorri, un concept interessante di cui il Viking dovrebbe essere pieno e attingere a piene mani. Purtroppo i testi in svedese ne limitano la fruibilità nei paesi non scandinavi, ma come dice il chitarrista stesso, “continueremo a cantare in svedese, perché questa è la lingua dei nostri avi”. Non posso che comprenderli, fargli i miei più sentiti complimenti e iniziare a studiare un po’ di svedese.

 

Tracklist:

  1. I Nordstjärnans Sken
  2. Fädernas Kall (Under Hödja Norbanér)
  3. Drakeld
  4. Den Tödes Drömmer
  5. Nordanblod
  6. En Fallen Härskare
  7. Ymer
  8. Vindar Från Glömda Tider
  9. Blod, Jord Och Stjärneglans
  10. Det Sargade Landet
  11. Tiden Som Komma Skall

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