Recensione: Noregs Vaapen

Di - 4 Dicembre 2011 - 0:00
Noregs Vaapen
Band: Taake
Etichetta:
Genere:
Anno: 2011
Nazione:
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82

“Noregs Vaapen” ha un profumo fortissimo, un gusto inconfondibile.
Ogni nota, ogni accordo, ogni urlo tracciato tra i solchi di questo disco mi riconducono alla Norvegia. O, se non altro, alla Norvegia vissuta e cantata da Hoest e dalla sua personalissima macchina da guerra: Taake.
“Noregs Vaapen” rappresenta degnamente ogni sfumatura del paese scandinavo: freddo come il ghiaccio, aspro a ruvido come le coste sul mare di Barents, accecante come il sole indomabile dei mesi estivi e caustico come la salsedine sputata in faccia da un vento gelido. Un disco ‘quadrato’ composto da sette tracce capaci di vivere di vita propria anche se avulse dal loro contesto d’insieme. Cosa assolutamente da non sottovalutare questa, vista la tendenza di Hoest nello scrivere canzoni riconducibili quasi sempre ad uno specifico filo conduttore.
Questa non trascurabile peculiarità rende il lavoro estremamente piacevole e coinvolgente. Nessun tempo morto, nessun calo di tensione: “Noregs Vaapen” rapisce con il suo feeling immediato a partire dal primo riff che, come un pittbull indemoniato, non ti molla fino all’ultimo istante. Tutto grazie ad un suono ricco, brillante, in cui ogni strumento trova il proprio spazio, allontanandosi sempre più dal suono minimale che contraddistingueva il Black primi anni novanta, pur non tradendone lo spirito. Cosa chiedere di più?

Sia ben chiaro, non siamo di fronte a capolavori come “Over Bjoergvin Graater Himmerik” o “Nattestid Ser Porten Vid”, se non altro per rispetto verso l’impietoso scorrere del tempo; ciò nonostante questo disco rappresenta in maniera fedele la continua evoluzione stilistica e musicale dell’artista di Bergen. Hoest ha dato vita ad un disco coerente in tutto e per tutto con il suo modo di fare Black Metal: rapido, gelido e malignamente coinvolgente. Qualitativamente non ci discostiamo da livelli di eccellenza pressoché immutati a cui i Taake ci hanno abituati fin dal lontano 1999. I Taake, ed è un caso più unico che raro, sono uno di quei pochi gruppi che hanno mantenuto sempre una qualità ineccepibile diventando, di fatto, un importante punto di riferimento nel TNBM.

Ad aprire il disco il riffing gelido e velenoso di “Fra Vadested Til Vaandesmed”, brano eclettico, altalenante, fatto di numerosi e repentini cambi di tempo. Il più rappresentativo apre al cantato di Nocturno Culto, abile a rendere ancora più affascinante un’opener che lascia l’ascoltatore letteralmente incatenato allo stereo. Piuttosto atipico (e di beatlesiana memoria), in un finale che già di per sé evoca una profonda tristezza, l’utilizzo del Mellotron che da solo è capace di rende l’atmosfera ancora più desolatamente nera. Con un’apertura di questo spessore, tutto quello che mi circonda può di certo aspettare.

È però doveroso, ai fini della cronaca, porre l’accento su un dato di fatto. Con il proseguire nell’ascolto, questo generale senso si compiacimento non si attenua né si smarrisce. Anzi: in un crescendo generale il disco continua ad ammaliare il mio immaginario musicale, ragalandomi una miriade di sfaccettate emozioni, spesso contrastanti.
Le immagini si susseguono, mentre rapida scorre “Orkan”, canzone che più di tutte sottolinea l’indomabile cuore pagano dei vecchi contadini, nella quale si registra un attacco, nemmeno troppo velato, contro l’Islam. Percorsa come un fremito da un continuo ronzio, il brano prepara il terreno alla glaciale “Nordbundet”, già metabolizzata grazie al singolo “Kveld”, uscito ad aprile, e per essere stata oggetto del videoclip promozionale di Noregs Vaapen. Martellante, trafitta come una stalattite di ghiaccio del rapido assolo di Lava, la canzone offre spazio anche ad Attila Csihar per un breve cammeo. Molto coinvolgente anche la successiva “Du Ville Ville Vestland”, impreziosita da un Demonaz sopra le righe, e dalla suggestiva chitarra di Aindiachaí.

Un gracchiare di corvo ci da il benvenuto in uno dei brani più controversi del disco. Un suono malato, sofferente ed agonizzante, caratterizzato da urla e gemiti in sottofondo, muta forma repentinamente perdendosi, per poco più di un minuto, in un trascinante assolo di banjo. Al primissimo ascolto, non ho potuto nascondere un certo stupore. Il suono del banjo, di cui tanto si è discusso, mi ha catapultato in un istante nella cara e vecchia contea di Hazzard, alla guida della fiammante Dodge Charger arancione, inseguito dallo sceriffo Rosco P. Coltreine. Non posso negarlo.
A parte gli scherzi, un suono così particolare mi ha colto del tutto alla sprovvista e, tutto sommato, il risultato si è rivelato particolarmente piacevole. Ma, è giusto dirlo, la metabolizzazione non è stata per niente immediata. Solo dopo svariati ascolti le note dello strumento di Gjermund – protagonista anche nella lenta e claustrofobica “Helvetesmakt” con un delicato, ed altrettanto atipico ma apprezzabile mandolino – si sono rivelate per quello che sono: tasselli raffinati che hanno saputo incastonarsi egregiamente nella struttura della canzone rendendo “Myr” una piacevole scoperta.
Degna di nota la parte corale di “Helvetesmakt”, un vero e proprio canto proveniente dal più recondito angolo d’inferno, in cui Hoest viene supportato egregiamente da Bjoernar E. Nielsen, già sotto le luci della ribalta con il suo Mellotron.

A completare un disco di siffatta arte nera, tocca a “Dei Vil Alltid Klaga Og Kyta”, brano originariamente composto nel 1855 da Ivar Aasen, contadino autodidatta tra i più convinti sostenitori della “lingua popolare”, più comunemente conosciuta come nynorsk. Un batteria al fulmicotone stende un degno tappeto per la passerella finale. E meglio non si poteva proprio concludere: tra richiami più o meno violenti al thrash old-school, assoli lampo e totali stravolgimenti d’ambientazione, il brano ci accompagna nel suo lungo sviluppo attraverso il vero e proprio commiato dell’artista con il pubblico. Forse gli ultimi quindici secondi del disco sono quelli che lasciano più spazio alle mie personalissime interpretazioni. Fossero state immagini di un film horror, quei suoni lugubri e tetri mi avrebbero fatto presagire un ritorno, una svolta, un segnale che lasciasse spazio a qualcosa di ‘incompiuto’. Qualcosa che, nascosto dal buio della notte, è pronto a saltar fuori dalle ombre per reiterare l’incubo.
Forse è questa l’immagine finale che “Noregs Vaapen” lascia nel mio subconscio. Un’immagine che, una volta di più, mi sussurra che il male è in agguato, pronto a ghermirti avvolto in una impenetrabile e gelida nebbia…  

Daniele Peluso

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Tracklist:
01. Fra vadested til vaandesmed         
02. Orkan         
03. Nordbundet     
04. Du ville ville Vestland         
05. Myr         
06. Helvetesmakt         
07. Dei vil alltid klaga og kyta

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