Recensione: Nothing Will Remain

Di Marco Tripodi - 10 Gennaio 2018 - 8:00
Nothing Will Remain [Reissue]
Band: Headcrasher
Etichetta:
Genere: Thrash 
Anno: 2017
Nazione:
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73

Non è senza una certa emozione che rimetto nel lettore questo pezzetto di storia della musica metal italiana. In verità ho già detto qualche inesattezza, poiché nel lettore il disco d’esordio dei cosentini Headcrasher non ho mai potuto inserirlo dato che all’epoca, il preistorico 1989, la Metalnews lo licenziò su vinile, e più che di metal bisognerebbe parlare di thrash metal per essere precisi, ma era tanto per inquadrare la situazione. Del resto, a ben guardare copertina e foto della band non c’era da equivocare, nessuno avrebbe pensato di trovarsi al cospetto di un progetto synth pop per club new wave o similia. Lo dico subito, la mia oggettività di recensore freddo, distaccato ed entomologo vacilla, perché io questo LP lo comprai quando uscì, spendendo le mie 20 e passa mila lire (i dischi di metal italiano costavano più di quelli di importazione…il mondo è sempre andato alla rovescia). Ascoltavo musica “dura” da poco più di un annetto, ero (ancora) a digiuno di molti pilastri costitutivi del genere e il fatto che esistessero dei capelloni borchiati anche battenti bandiera tricolore mi dava una certa soddisfazione.

 

Di “Nothing Will Remain” mi fece innanzitutto impazzire la copertina. Naive certo, tutt’altro che preziosa, aristocratica e raffinata, e tuttavia magnetica, ipnotica, emotivamente potentissima, sembrava dire “poche ciance, qui va tutto a scatafascio, smettetela di inseguire mostri e diavoli vari, il vero orrore è quel bambino assediato da pestilenze quali morte nucleare, inquinamento, fame e miseria“. L’ascolto andò su un doppio binario; da un verso era evidente la povertà di una simile pubblicazione (un misero foglietto interno simil fotocopia con i testi stampati sopra, un inglese non proprio oxfordiano, qualche intemerata del cantante tirata ai limiti della stonatura – una sorta di Klaus Meine prestato al thrash – una produzione mediocre che impastava tutto e soprattutto ammazzava la batteria); dall’altro, esattamente come per l’intensità dell’artwork, passione, genuinità, determinazione, carnalità della musica degli Headcrasher erano veri e propri sobillatori delle endorfine del cervello del metalkid che decideva di porsi di fronte alle casse dello stereo. Lo spirito della band travalicava gli angusti confini della tecnica esecutiva, dell’idioma poco padroneggiato e di una produzione da terzo mondo metallico (quale in effetti l’Italia all’epoca era), facendo intravedere qualcosa di assai più grande, più eccitante, più generoso.

 

Alla maniera del thrash americano degli Anthrax e dei Nuclear Assault, ma anche di quello inglese degli Acid Reign o di quello teutonico dei Risk, gli Headcrasher saltavano da tematiche serissime e socialmente impegnate (mali sempiterni declinati in tracce come “Live Or Die“, “Waiting For An Answer“, “The Cemetery Of The Lost Cross“, “Good Morning, Amazzonia!“…con tanto di doppia zeta, o l’episodio dello Shuttle Challenger esploso in volo alle 17:39 del 28 gennaio del 1986, come raccontato ad esempio nella fulminante opener “Blood From The Sky“) a momenti di ironia e divertimento scanzonato (“F.F.W.“, “Sk8 Life“, “Flebo’s Country“), su tutti i 3 minuti di “Bath-Man“, esilarante parodia di Batman trasformato in “uomo cesso”. Si sentiva che agli Headcrasher mancava un produttore degno di tale nome in consolle, un budget accettabile e qualche settimana in più alla ricerca di un amalgama in sala di registrazione, ma l’entusiasmo e la sincerità contenuti nei solchi del vinile erano innegabili e credo ci misero pochissimo – come nel mio caso – a conquistare gli ascoltatori, soprattutto connazionali. Il periodo non era di migliori, o meglio lo era, il thrash era al suo climax, ma di lì a poco tutto sarebbe cambiato, travolto dallo tsunami delle contaminazioni (funky, alternative, grunge, industrial, etc.).

 

Gli Headcrasher provarono a rifarsi vivi nel ’91 con “Introspection“, platter assai più complesso, maturo ed evoluto del precedente (“introspettivo” appunto), decisamente meno immediato ma non per questo meno valido, sebbene anche il fatto di provenire da Cosenza anziché New York o San Francisco non aiutasse granché. Nel ’92 il solo Claudio Gentile alle vocals, contornato da musicisti totalmente rinnovati, insistette con l’EP “Brain Jokes“, arrendendosi poi comunque all’impossibilità di tenere in vita la band. Oggi, 28 anni dopo la sua pubblicazione, Punishment 18 edita per la prima volta su CD il debut degli Headcrasher, nel frattempo rassemblatisi nella loro primissima incarnazione (quella del demo “…The Dat After…” del 1986, con J.B. Blade alla chitarra anziché Alex Magnelli). L’artwork viene rivisto ed aggiornato ma per fortuna non stravolto, la scaletta del disco rimasterizzata in digitale ed ampliata con un gustoso e promettente inedito targato 2017 (“In Our Times“) e 6 tracce già apparse su “Introspection” ma qui proposte in una versione inedita risalente ad una registrazione promozionale del 1991. Due CD succulenti e fondamentali da un punto di vista archeologico (per non parlare del sentimentalismo e della nostalgia….). Chiaro che negli anni 2000 “Nothing Will Remain” non suonerà come i God Dethroned, i Vektor, i Killswitch Engage, chi è nato da meno di un quarto di secolo e solo oggi scopre l’esistenza di questa band e di questo disco avvertirà il sound magari come datato e vecchiardo; in ogni caso sappiate che se in Italia il metal ha attecchito ed oggi vive in un discreto stato di salute e anche grazie a indefessi minatori come gli Headcrasher, sul cui ardore ed integrità non è ammessa critica poiché quasi un trentennio dopo sono ancora qua, a difendere le proprie radici e a gettar ponti per il futuro.

Marco Tripodi

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