Recensione: Obsideo

Di Vittorio Sabelli - 10 Novembre 2013 - 0:05
Obsideo
Band: Pestilence
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2013
Nazione:
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70

 

Ci sono band che sembrano mettere in soggezione al solo nominarle; sarà perché sono parte integrante del grande muro che è la storia della musica, e del metallo in particolare, o per puro luogo comune, che di bocca in bocca e di anno in anno si sono trasformate in leggende (a volte solo metropolitane). Non è di certo il caso dei Pestilence, almeno fino alla rottura che li tenne fuori dalla scena nel 1994, poco dopo l’uscita di “Spheres”. Ma dalla reunion del 2008 ci troviamo di fronte un cambio severo che converge verso territori e ambiti death metal, con innesti extra-musicali che però hanno lasciato l’amaro in bocca nelle due releases precedenti, entrambe insufficienti per diversi motivi, che i fan della band conoscono per filo e per segno. Mentre “Resurrection Macabre” del 2009 era il disco dell’atteso ritorno, e qualche buon lampo era presente, con un death metal violento, grezzo e allo stesso tempo abbastanza accattivante, soprattutto per merito della caratura dei musicisti, l’ultimo “Doctrine” del 2011 risultava un’amalgama non ben identificata, che a tratti cercava incontri con gli Obscura e non dichiarava apertamente la sua identità, lasciando brancolare nel vuoto anche i fan più pazienti.

Cosa aspettarsi oggi di differente dal precedente Doctrine? Innanzitutto la line-up. La zona ‘retrostante’ si rinnova con l’innesto dello sconosciuto bassista Georg Maier, compensato dall’inserimento dietro le pelli della piovra degli Psycroptic, David Haley. Senz’altro “Obsideo” vira in direzione di Resurrection Macabre, a livello di elementi più facilmente (per quanto possibile) assimilabili dell’etereo riffing messo in atto dalla coppia Uterwijk/Mameli in Doctrine. La coppia cerca di risollevarsi dagli ultimi passi falsi con questo settimo capitolo della saga Pestilence. E quel che ne risulta è un album impegnativo, ma per molti tratti interessante e variegato.

La partenza mette subito in chiaro il concetto, con Mameli che parte a mille sulla title-track, tra tempi dispari e riff martellanti e discordanti, una sorta di blend tra Voivod e Cynic, e lascia ben sperare per la seguente “Displaced”, che continua il trend con la batteria di Haley che cerca di fungere da faro per la composizione e per ritrovare la retta via. Buono l’intermezzo con qualche breve lampo di synth che via si scivola in “Aura Negative”. Qui non cambia molto il discorso, incentrato su un death metal le cui sezioni risaltano il succedersi degli avvenimenti. Ci imbattiamo in buone composizioni che ben poco hanno da dividere con i dischi sopra citati. Ancora tempi dispari e riff pesanti sono alla base di “Necromorph”, che vede Mameli ripiegare su mondi vicini ai Gorguts, ma pur sempre rimanendo a debita distanza. Da qui la voce inizia a essere per certi versi ripetitiva, sotto il punto di vista ritmico. Che Mameli non sia visto di buon occhio nel ruolo di singer è cosa risaputa, ma sotto il profilo chitarristico nulla da eccepire, soprattutto dal punto di vista tecnico, che a volte (purtroppo) non sempre esalta le sue doti in fase compositiva.

Il mid-tempo di “Laniatus” continua a non dare grandi scossoni, nonostante il main riff sia abbastanza coinvolgente. Forse il problema che s’inizia a riscontrare sta nelle composizioni, che per quanto siano ricche di materiale discreto, risultano poco efficaci come costruzione e assemblaggio. L’entrata in line-up di Haley dovrebbe lasciarci buone speranze, ma dal mio punto di vista risulta poco ‘sfruttato’; un pò come guidare una Ferrari con le catene…in estate. L’intro di “Distress” dà qualche scossone con il drumming a mille, ma non basta alla causa per quel che ci aspettiamo. Le linee vocali risultano deboli, così come il finale. Anche “Soulrot” parte alla grande e presto s’impantana e si amalgama ai brani precedenti, tranne che per un breve solo centrale che dissimula il tutto. Ancora riff e poi riff ‘a oltranza’ per “Saturation”, che rispetta la tendenza dei brani precedenti. L’intro di “Transition” in chiave funky-metal riporta alla mente Spheres, ma solo per qualche momento, interrotto da tempi intriganti e schitarrate selvagge. I synth in lontananza cambiano colore da quello che sarà il riff del finale, con il basso di Maier che fa capolino, dopo un breve ‘passaggio’ in Displaced. Il synth detta anche il finale, che altri non è che l’intro della conclusiva “Superconcious”, che segnala la fine di questo lavoro altalenante.

Mentre “Consuming The Impulse” e “Testimony Of The Ancient” rimarranno pietre miliari incastonate nei secoli dei secoli nel muro di metallo, in questo momento l’evoluzione della band la porta ancora una volta a confrontarsi con le scelte operate, che vanno a scontrarsi con le centinaia di act che si prodigano con maggior fortuna nelle varie sfaccettature del death metal. Non per questo il disco è da mettere in disparte, anzi, per molti versi s’inizia a intravedere l’uscita dal tunnel nel quale i Pestilence sono rimasti per anni, sperando che in futuro continuino a entusiasmarci come in passato.

Vittorio “versus” Sabelli

 

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