Recensione: Of Apathy

Di Daniele D'Adamo - 25 Gennaio 2017 - 0:00
Of Apathy
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2016
Nazione:
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74

Dalle rive… lagunari emerge un nuovo full-length dell’ormai consolidata scena italiana death. Si tratta di “Of Apathy”, debut-album dei veneti From The Shores.

Il gruppo è in azione da sette anni, e si sente. Si sente perché il disco è rappresentativo di un prodotto finito e rifinito, completo in tutte le sue parti. Maturo e adulto.

Il death metal dei veneziani è indicativo di un’adolescenza passata a provare e riprovare, a scrivere e riscrivere, a suonare e risuonare. Non c’è molta contaminazione, rispetto ai dettati primigeni della foggia musicale di cui trattasi. C’è un po’ di melodia, c’è qualche spruzzata *-core, qua e là, ma la base del sound dei From The Shores è solida e massiccia come una montagna di granito. Assolvendo, con ciò, al requisito numero uno che deve possedere il death metal: l’abbondanza quanto più sterminata possibile di energia allo stato brado. E questa c’è tutta, in “Of Apathy”. Tanto che, in certe occasioni, sembra di essere presi a schiaffoni in piena faccia, per quanto è precisa, chirurgica, soprattutto enorme, la potenza che si sprigiona dai corpi di Luca Cassone e i suoi quattro compagni d’avventura.

Le chitarre svolgono il loro compito con pienezza a tutto tondo, erigendo titanici muraglioni di suono accumulando uno sull’altro sequenze incessanti di riff, cesellandolo con ricami di buona fattura, forse retaggio di certo melodic death metal di gothenburg-iana memoria (‘Weakness of the Flesh’). Un lavorio continuo, incessante, sfinente. Esattamente con il drumming di Nicolò Sambo, terribile macchina ritmica dal blast-beats facile – assieme al basso di Nicolò ‘Theo’ Del Zotto – intrisa d’inesauribile quantità di moto.

Come si può ben ascoltare in brani come per esempio ‘Heaven’s Dark Harbinger’, lo stile dei Nostri, oltre a essere più che sufficientemente definito e coerente con se stesso, ha, proprio, come caratteristica di peculiarità, l’estrema concentrazione di energia; finalizzata non a determinare caos, quanto bensì a dar luogo a un insieme compatto, coeso, inscindibile nelle sue componenti primarie.

Una bella mazzata sulla schiena, insomma (‘The Constellation Thirst’), peraltro segnata da mood piuttosto percepibile, rivolto agli stati più malinconici dell’animo umano. È un filo sottile di tristezza, quello che lega le canzoni da ‘This Ain’t Another Feast for Crows’ a ‘Weakness of the Flesh’, il quale ha il pregio di inspessire l’emotività disco, evitando per ciò che sia soltanto una sorta di picchia-duro-e-basta (‘Opus XIII’).

Con ciò non rimane che constatare ancora una volta che non serve andare lontano per gustare del buon death metal. Liscio, lineare, robusto, possente. Magari senza colpi di genio ma compatto, professionale e veemente.

Daniele D’Adamo

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