Recensione: Of Celtic Blood and Satanic Pride

Di Daniele Balestrieri - 31 Gennaio 2008 - 0:00
Of Celtic Blood and Satanic Pride
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Anno: 2007
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80

Drowning the Light è una one band australiana concepita nell’estate del 2003 e per questo relativamente sconosciuta nonostante i… beh, 19 album all’attivo.
Esatto: bisogna dire che la produzione di Azgorh, factotum di appena 22 anni, ha davvero dell’incredibile e merita di essere menzionata: tutto è iniziato con quattro demo nel 2003 che hanno portato, sempre nel 2003, a una compilation di “best of” estratta dai succitati demo. Arriva quindi il primo full length, e lungo le sue corde inizia il glorioso 2007 che vede il secondo, il terzo e il quarto full length; quindi uno split, un EP, un demo, uno split, un demo e per concludere in bellezza un ulteriore split… e così termina il 2007, ma il 2008 non può iniziare diversamente: non ha fatto in tempo a finire gennaio che già siamo a due split completati.

Non si può di certo dire che sia un artista riflessivo, né tantomeno che manchi di passione; tuttavia il dubbio è inevitabile: una tale produttività corrisponderà ad altrettanta qualità?
Difficile dirlo per ogni disco partorito, del resto credo che nessuno, a parte l’autore, sia stato in grado di ascoltare l’opera omnia di Drowning the Lights, ma se la qualità media è paragonabile a quella di questo “Of Celtic Blood and Satanic Pride”, direi che sarebbe il caso di tenere sott’occhio questo ragazzo e il suo folto esercito di opere.
Iniziamo subito con il dire che questo disco, e il discorso probabilmente si estende a tutta la sua produzione, non è stato registrato in uno studio vero e proprio. Probabilmente si tratta del suo garage, o della cantina, o della soffitta di un fienile. La qualità audio è assimilabile a quella di un demo autoprodotto, forse anche uno dei peggiori. L’eco ambientale è notevole, la distanza fisica tra gli strumenti è percepibile a orecchio, e di tanto in tanto si odono persino dei rumori ‘alieni’, alla tagliaerbe di Man of Iron, per intenderci.
Anche la strumentazione non è delle migliori: le chitarre sono ovattate e distorte, le percussioni probabilmente ricavate alla bene e meglio. Probabilmente è stato persino utilizzato un tom di cartone, il che contribuisce a rendere l’esperienza musicale decisamente atipica. Se si dovesse giudicare un disco solamente dalla qualità di registrazione, quest’album sarebbe un fallimento totale, tuttavia in questo genere la pulizia non è sempre sinonimo di perfezione. Artisti come Bathory o Ulver hanno reso celebri i loro “dischi da scantinato”, diventati oggigiorno veri e propri capolavori dei propri tempi. Anche per Drowning the Light la goffaggine della registrazione contribuisce a creare un’atmosfera fangosa che giova al tipo di black realizzato.

“Of Celtic Blood and Satanic Pride” risponde più o meno ai canoni del suicidal black metal, più che altro per il tempo utilizzato, ma siamo ben distanti dai lavori delle band principi del genere. Alla lentezza spasmodica dei riff e al cantato lacerante, infatti, il musicista australiano ha aggiunto numerose venature brillanti che spaziano dal black canonico al folk tradizionale, ed è proprio grazie a queste varianti che l’album risalta e comunica sensazioni che altre band hanno faticato anni prima di riuscire a far proprie. Mi riferisco senza dubbio alla notevole “To the End of Time Part II“, che oltre a un riff che sembra a dir poco provenire dai primordi del pagan metal, vanta un malinconico, misero flauto che dà letteralmente i brividi: trovate come queste non sono tipiche di un disco dozzinale, scritto di getto, ma al contrario provengono da una ispirazione evidentemente alla base della superproduzione di questo artista. Il disco è scandito da tristi intermezzi strumentali che si alternano a brani più veloci, sempre supportati da riffing sicuri, talvolta a malapena discernibili a causa del caos generato dalle percussioni.
La voce, straziante e acida, ricorda in un certo senso i Summoning, così come le stesse strutture musicali che tendono a evocare scenari apocalittici ed epici sulla falsariga del duo svizzero.
Naturalmente sono paragoni un po’ azzardati, ma è notevole per una band piccola e limitata come questa riuscire a sfornare un lavoro potenzialmente molto più interessante di tante produzioni più grandi e blasonate.
Insomma, registrazione a parte, il disco merita un occhio da parte di ogni seguace del black metal sucidal e non, e mi riservo una nota finale rivolta esclusivamente ai fan del pagan-heathen metal: fate attenzione a questo disco, perché è talmente vicino al blackfolk metal primitivo finlandese da essere quasi un piccolo, ancora innocuo, prodigio d’oltremisfero.

TRACKLIST:

1. the cry of the wolf
2. of celtic blood & satanic pride
03. my honour is true
04. fight…till the lonesome end
05. immortal bloodline
06. to the end of time part ii
07. lucifer, he who lights my path
08. last breath

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