Recensione: Office Of Strategic Influence

Di Onirica - 26 Febbraio 2003 - 0:00
Office Of Strategic Influence
Band: O.S.I.
Etichetta:
Genere:
Anno: 2003
Nazione:
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84

Jim Matheos – Fates Warning
Mike Portnoy – Dream Theater
Kevin Moore – Chroma Key

Sean Malone – Gordian Knot

Con quattro individui di questo calibro il successo è assicurato. Le aspettative al momento dell’acquisto aumentano esponenzialmente, la curiosità raggiunge livelli insopportabili e come spesso accade in questi casi, l’estenuante attesa viene ripagata con una sorpresa destabilizzante. Considerate le capacità tecniche avremmo potuto trovarci di fronte ad un mero esercizio strumentale, il trio Matheos/Portnoy/Moore sceglie invece la strada più difficile, quella dell’originalità e dello sviluppo, tanto contestata al progressive metal degli ultimi tempi dal frontman della death metal band svedese Mikael Akerfeldt in una delle sue ultime riviste. A proposito di Opeth, collabora all’incisione di questa nuova release per la InsideOut Music il famoso Steve Wilson dei Porcupine Tree prestando la sua voce alla settima traccia, il quale come saprete è presente anche negli ultimi lavori del gruppo autore di Blackwater Park.

Mai ascoltare per la prima volta un album seguendo allo stesso tempo le liriche sul booklet, se poi si tratta di questo disco in particolare un primo ascolto rilassato e spensierato è fondamentale per non cadere nel panico e nel dubbio di avere speso invano quasi 19 euro: il sottoscritto ha rischiato di compiere questo errore per rendersi conto solo dopo qualche minuto di avere a che fare con un genio difficilissimo da ingoiare in un boccone nei suoi 45 minuti scarsi di puro laboratorio sperimentale. Dimenticate Fates Warning e Dream Theater, la digestione di questo rovente pezzo di silicio dipende dall’ingresso in casa [Kevin Moore]: il grande tastierista risponde per l’ennesima volta alla domanda sul motivo per cui ha deciso di lasciare la band progressive metal più famosa al mondo, conducendo per mano tre grandi protagonisti della musica di tutti i tempi all’interno della sua concezione del termine music. In realtà il mio amato bassista Sean Malone non fa parte ufficiale del progetto che vi sto presentando, tuttavia la sua presenza si sente eccome e trasmette tutta la differenza di stile, qualità e violenza cui si possa aspirare senza negare l’influenza del percorso guidato dal maestro dei tasti bianchi e neri. Ricordo che il basso del brano che intitola l’album è stato registrato da Jim Matheos.

Prima cosa importante. La voce di Kevin Moore è stata una scelta a mio modesto parere azzeccatissima per un disco che in fin dei conti si rivela spettrale ed atmosferico, triste e malinconico quanto mai: le corde vocali del tastierista di Take The Time ricordano il cantato dei Coldplay, una delle giovani rock band inglesi che recentemente ha scalato le classifiche europee: calda e sottovoce esprime lo stato d’animo amareggiato che si respira per la media durata di dieci tracce, dimostrando che la presenza del cantante dei Pain Of Salvation Daniel Gildenlow (che originariamente doveva partecipare a questo progetto come voce e chitarra) non sarebbe stata indispensabile per i propositi del gruppo. Batteria e chitarra scendono in campo con una strumentazione e una scelta dei suoni pressocchè identica a quella adottata negli ultimi album delle rispettive band: [Mike Portnoy] sfodera piatti e bicchieri della sua macchina da guerra con suoni limpidi ed affilati come spade, promette di non concedere silenzio ai tratti più tirati del disco e allo stesso si conferma valido interprete di parti in cui normalmente la batteria deve lasciar cantare gli strumenti davanti, ottimo accompagnatore Mike regala sempre larghi sorrisi quando nei momenti più delicati ed atmosferici sfiora le sue imprevedibili percussioni [Jim Matheos] torna a trovarci con un muro sonoro spesso venti metri ma dalla consistenza abbastanza incerta devo dire, in effetti il suo songwriting non mi ha entusiasmato molto e sono rimasto molto male per questa cosa: la resa sonora merita un cento bello e buono, tuttavia mi sarei aspettato qualcosina in più da un chitarrista della sua portata, rimango indifferente ai suoi poderosi riff perchè suonano come già sentiti mentre è quasi inesistente la parte solista. Dopo essermi espresso in questo modo mi resta comunque il dubbio di pretendere forse troppo dal leader dei Fates Warning, del resto si accosta con straordinaria maestria agli spunti proposti dai colleghi, forse ci mette poco di suo in alcune parti dopo i primi brani ma di certo nuovi ascolti potranno chiarirmi il livello della sua prestazione qui dentro.

Il progressive metal cresce con questa uscita del 2003, questa è solo l’ultima delle tante lezioni che quattro capostipiti del genere sono riusciti ad offrirci nel corso degli anni. Ogni brano è diverso da quello che precede, ma la sostanza resta sempre quella progressiva nonostante le tendenze in stile Radiohead, i percorsi orientali e i binari acustici, nonostante le influenze di quello che viene chiamato nuovo metal e le atmosfere normalmente familiari alla frangia del metal estremo più macabra ed oscura. Nasce la risposta alle critiche più accanite nei confronti di un genere che secondo alcuni non ha neanche vissuto un giorno, un disco che si scontra con l’opinione errata secondo la quale il prog degli ultimi quindici anni non sia che una ripresa in chiave moderna di quanto è già stato scritto nei primi capitoli della storia del rock anni settanta. Quale migliore occasione per riferirsi a capolavori dell’avanguardia come Disconnected dei Fates Warning e Six Degrees Of Inner Turbulence dei Dream Theater, dove che vi piaccia o no la musica prosegue non necessariamente si migliora.

Attenzione al primo ascolto ragazzi, questo disco è pregiato…

Andrea’Onirica’Perdichizzi

TrackList:

1. The New Math (what he said)
2. OSI
3. When You’re Ready
4. Horseshoes And B-52’s
5. Head
6. Hello, Helicopter!
7. ShutDOWN
8. Dirt From A Place
9. Memory Daydreams Lapses
10.Standby (looks like rain)

*Videoclip quarta traccia*

DISPONIBILE LA LIMITED EDITION

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