Recensione: Ok Nefna Tysvar Ty

Di Daniele Balestrieri - 25 Dicembre 2003 - 0:00
Ok Nefna Tysvar Ty
Band: Falkenbach
Etichetta:
Genere:
Anno: 2003
Nazione:
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89

Come da consuetudine, non ho scelto questo giorno a caso per parlare della terza, ultima fatica di Falkenbach, paganissimo islandese trapiantato in Germania. Si è fatto un gran parlare di questa uscita, anche perché dopo i due gioielli “…en their medh riki fara…” e “magni blandinn ok megintiri…“, l’artista sembrava caduto assopito in un sonno che è durato oltre sei anni, prima di stringere nuovamente le mani alla Napalm Records e sfornare in grande pompa la sua terza opera. Album del mese d’ottobre secondo Napalm, e grande speranza di tutti i viking metallers mondiali, questo ok nefna tysvar ty si presenta al grande pubblico in forma splendida, con un digipak limitato color nero e oro, e una versione “povera” in jewel case con una delle copertine sicuramente più potenti di tutto il viking, un monolite immerso nel tempestoso cielo baluginante nel tramonto, dipinto con grande spirito da un artista norvegese del XIX secolo.

In quaranta minuti spaccati Vakyas ci trascina a forza nel suo mondo, che questa volta è ricoperto di una tranquilla, mastodontica epicità nella quale la sua grande abilità di musicista è affiancata da Boltthorn alle batterie, Hagalaz alla chitarra acustica e da Tyrann ai cori.

Da tanta unione scaturisce un lavoro maturo, limpido, più equilibrato rispetto ai suoi due precedenti lavori, interamente curati in tutti gli strumenti unicamente da lui. Abbandonata qualsiasi velleità black metal, la cui influenza volteggiava nelle sue opere passate, l’islandese sembra folgorato dall’epica strettamente bathoriana, un po’ malinconica e triste, di Twilight of the Gods, di cui quest’album potrebbe essere una oscura propaggine moderna. Per non far dimenticare al popolo le sue radici, Vakyas apre l’album con i tre potentissimi corni di “Vanadis“, in cui si nota subito un rallentamento rispetto a Magni, e un aumento potenziale della carica epica, subito gettata su uno scudo di legno dal crescendo iniziale, che qua e là mostra gli ultimi rigurgiti del suo retaggio black. Le voci pulite ormai dominano sugli scream, e la sua voce è talmente peculiare da essere riconoscibile tra migliaia, rendendo il suo stile unico e caratteristico, un pregio di gran conto nel metal. Ottima la ritmica, ottimo l’uso delle tastiere di cui Vakyas è gran virtuoso, e ottimi gli arrangiamenti con gli strumenti a fiato e con i cori, in questa canzone assolutamente completa e ben divisa da quello che è il gran distacco dal passato, ovvero la seconda “…As Long As Winds Will Blow…“. Dato l’addio allo screaming black, viene introdotta in grande stile un’altra predominante dell’album, la chitarra classica/acustica, che riprende in più di una traccia il riff principale, rielaborandolo in chiave assolutamente epica. Non è questo esattamente il caso, visto che questa è una canzone abbastanza intensa ma ripetitiva nei riff e nel cantato. Per fortuna l’album è appena iniziato, e una tumultuosa carica di cavalli ci introduce alla mistica “Aduatuza“, una gran canzone corale con una base acustica che ricorda le vecchie evoluzioni più epiche di Magni Blandinn, più che di En Their. La canzone scorre epica e tranquilla, anche questa con un filo di ripetitività, finché non veniamo introdotti a quella che probabilmente considero la miglior prova di tutto l’album, e una delle migliori prove epiche in assoluto della nostra nominale one-man band vichinga.

La dinamica, ottimamente arrangiata e bardica “Donar’s Oak” vanta una struttura più classica di strofa-ritornello-strofa-ritornello-assolo-ritornello di pregevole fattura, con una voce fresca, corale, dannatamente epica, e un assolo strumentale davvero degno di questo nome, in cui il semplice riff di chitarra acustica viene rincorso in una seconda battuta dal flauto che ne ripercorre i sagaci tratti musicali, fino a concludersi nell’atmosfericissimo refrain di gran significato mitologico. Prosegue la cavalcatona epica con la cover della sua “…The Ardent Awaited Land“, in cui racconta la terra nella quale ci aveva immersi in Magni Blandinn ok Megintiri. Questa cover ovviamente ha perso tutta la carica black dell’originale, e sotto un coro spaventosamente bathoriano e delle percussioni profondissime la sua voce sussurrata e straziante racconta come un antico scaldo le storie della leggendaria terra incendiata, finché il mare non ci porta a “Homeward Shore“, forse in assoluto la prova più Bathoriana dell’artista, un lamento lunghissimo, corale, monumentalmente epico, che sembra provenire direttamente dalla tormentata malinconia di Twilight of the Gods, di Hammerheart, di Blood on Ice. Nonostante i mid-tempo, la cadenza marzialmente epica e la lentezza esasperante di tutti gli strumenti ormai scevri di qualsiasi velleità black, speed o death, Vakyas riesce tranquillamente a catturare l’attenzione dell’ascoltatore grazie ad arrangiamenti originali, diversi, interessanti, curiosi e altamente evocativi. Stilema che si ripete anche con l’ultima “Farewell“, sperando che non sia sul serio un addio, in cui Vakyas si cimenta in un testo semplice e raccoglie tutti gli insegnamenti perpetrati in questo CD e li presenta tutti insieme in un medley che contiene a occhio e croce tutto ciò che è questo ok nefna tysvar ty.

Agli amanti del vecchio Falkenbach (tra i quali mi inserisco decisamente anche io) all’inizio peserà la mancanza delle sue tumultuose trovate black. Come già ripetuto in tutta la recensione, questo album è lento, drammatico, marziale ed epico, suonato con grandissima saggezza e gusto musicale, e prodotto altrettanto bene, con suoni puliti, dinamici e ben missati. Gli amanti dell’epico di grande scuola scandinava non se lo lascino sfuggire per niente al mondo, questo disco è profondo come i grandi maestri del genere, denso di significato e di atmosfera. Certo, la grande lentezza e cadenza non lo rende adatto a ogni tipo di stato mentale, bisognera essere preparati, in silenzio, in contemplazione per ammirare il crescendo, l’espansione di ogni singola canzone verso le terre sognanti di cui l’islandese ci ha sempre voluto rendere parte. Ottima prova, folk/viking di grande ispirazione, anche se un po’ breve e leggermente troppo lenta per i miei gusti, una scelta coraggiosa e un prodotto assolutamente brillante. Quando si ha l’arte e l’equilibrio dalla propria, il risultato non può che essere un altro successo meritevole d’acquisto quasi incondizionato.

TRACKLIST:

  1. Vanadis
  2. As Long As Winds Will Blow
  3. Aduatuza
  4. Donar`s Oak
  5. The Ardent Awaited Land
  6. Homeward Shore
  7. Farewell

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