Recensione: Omen Of Disease

Di Fabrizio Meo - 17 Ottobre 2013 - 0:01
Omen Of Disease
Band: Broken Hope
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2013
Nazione:
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77

 

«… egli, rispose al padre e disse: “Ecco, son già tanti anni che io ti servo e non ho mai trasgredito alcun tuo comandamento, eppure non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma quando è tornato questo tuo figlio, che ha divorato i tuoi beni con le meretrici, tu hai ammazzato per lui il vitello ingrassato”. Allora il padre gli disse: “Figlio, tu sei sempre con me, e ogni cosa mia è tua. Ma si doveva fare festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”…».

(Luca 15,11-32. Il figlio prodigo)

Amen. Erano perduti e sono stati ritrovati.
 
Eclissatisi improvvisamente dopo il full del 1999 “Grotesque Blessings”, per più di un decennio dati per dispersi tanto che qualcuno li aveva addirittura dimenticati. Ma è proprio vero che anche quando ‘la speranza è rotta’, è pur sempre l’ultima a morire.

Loro sono i Broken Hope, storica band dell’Illinois che con bordate come “Swamped In Gore” (1991), “Repulsive Conception” (1995), “Loathing” (1997), è stata una delle cause di quei tremendi sismi che hanno squarciato gli anni Novanta della musica estrema. Un dolce ritorno dunque, per chi ha lungamente navigato negli oceani tempestosi dell’epoca d’oro, ove mai violenti naufragi o inattesi ammutinamenti furono più graditi.

I Nostri varcano il sipario di sangue con “Omen Of Disease”, full-length targato Century Media, con una line-up rimaneggiata che in seguito alla tragica dipartita del baluardo Joe Ptacek, presenta un nuovo mattatore vocale, Damian “Tom” Leski (Gorgasm). La flotta chicagoana dimostra di saper ancora remare incessantemente ai tonfi cupi del tamburo di Sorella Morte, solcando torbidi flutti in tutta naturalezza. Wagner brandisce la sei corde come l’oracolo predisse in tempi remoti, riff netti e riconoscibili grondano di groove fra trame brutali e canonici stilemi dai quali timpani e tempie adorano farsi violentare da sempre, Miczek percuote e scandisce con amore oscuro, blast-beats e break-down nudi come mamma Tisifone li ha fatti. Senza voler sminuire i grugniti di Leski figli della più bruta animalità, si percepisce comunque l’assenza del Leviathan Ptacek, il cui growl sulfureo battezzato nelle acque dello Stige ha maciullato la scena underground per la dannazione dei fan più accaniti del metallo.

Il rientro fra i ranghi a pieno regime dell’esperta band è decretato fin dalle prime battute con “Womb Of Horrors” dove riluce inconfondibile il trademark ormai noto, e prosegue per tutta la durata, un menù di appetitose pietanze come “Rendered Into Lard”, “Give Me The Bottom Half” o l’omonima “Omen Of Disease”, vero gourmet della cerimonia. L’artwork visionario e psicotico, mix di old school e surrealismo d’avanguardia, mostra ancor più l’intento dei nostri di condensare passato e presente in un’unica soluzione.

Come tutti i lavori dei Broken Hope (tranne “Loathing” dove si notano sfumature variegate) che non hanno di certo cambiato la storia del death metal, anche “Omen Of Disease” non ha alcuna pretesa sperimentale, è piuttosto una godibile panoramica sul percorso della band, una summa delle varie esperienze.

“Omen Of Disease” vuole rievocare, celebrare l’immortalità di un genere segnato dalla falce di quella Nera Signora nel pesto cappuccio, che Ingmar Bergmann fece giocare a scacchi con l’Uomo.

Buon ascolto fratelli.

Fabrizio Meo
 

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