Recensione: On the Sunday of life

Di paolinopaperino77 - 8 Ottobre 2002 - 0:00
On the Sunday of life
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Anno: 1988
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70

Questo Cd rappresenta il primo album vero e proprio dei Porcupine Tree (sebbene al momento dell’uscita del disco fosse il solo Steven Wilson a suonare e scrivere tutto il materiale) e racchiude tutti i brani fino ad allora pubblicati su demotapes ormai introvabili e con quotazioni imbarazzanti nel mercato collezionistico. Considerando il fatto che i PT costituiscono tuttora un gruppo poco più che underground, e dunque sconosciuto ai più, è bene dare qualche informazione di massima: i Porcupine Tree nascono, come una sorta di scherzo, dalla mente geniale di un tecnico informatico inglese, Steven Wilson, che si diletta anche con la chitarra e le tastiere. Wilson ama visceralmente una grande quantità di artisti provenienti dalle più disparate tendenze musicali, dal prog al cantautoriale, al pop elettronico, all’heavy metal più o meno estremo e ama, specie da giovanissimo, le atmosfere care alla psichedelia britannica degli anni ’60. Imbastisce ben presto una sorta di mito attorno ad una fantomatica band minore della psichedelia inglese (i Porcupine Tree) scomparsa lasciando poche tracce nel corso degli anni ’70. Scrive recensioni, articoli, ecc. su una band assolutamente inventata, ma riesce a generare grande interesse presso critica e fans. Solo dopo un po’ decide di alimentare ancora di più il mito dando vita ai Porcupine Tree, ovvero componendo e suonando materiale di ispirazione psichedelica e spedendo demotapes in giro per il paese (Regno Unito). Le buone risposte del pubblico spingono Wilson a incidere un vero album e “On the Sunday of life” è il risultato. Avvicinarsi a questo disco non è facilissimo, specie per chi è abituato ad ascoltare chitarre e suoni dinamici e metallici; qui non c’è nulla di tutto questo, quanto piuttosto una grande abbondanza di sintetizzatori, suoni freddini, voci effettate e tanta, tanta psichedelia. Sebbene gli elementi da me descritti possano apparire poco allettanti, in realtà l’album contiene notevoli spunti d’interesse per chi ama la musica senza troppe etichette e a risultare interessante, al di là dei singoli brani, è l’atmosfera generale del disco, adattissimo ad un “viaggio” musicale (senza l’aiuto di strane e pericolose sostanze, mi raccomando!!!). Il fatto che Wilson suoni tutto, ma proprio tutto, costituisce un limite, poiché non si assiste quasi mai a cose mirabolanti, specie a livello ritmico, ma la genialità dell’autore (sebbene penalizzata da una produzione piuttosto statica) genera piccole chicche come “Radioactive toy” che diverrà immediatamente il manifesto dei PT ed un classico imprescindibile di ogni concerto. Il brano in questione richiama alla mente alcune cose dei Pink Floyd (come sonorità) e condanna Wilson a continui, fastidiosi ed improponibili paragoni con Gilmour, Waters e compagni. “Radioactive toy” si presenta come un brano d’atmosfera, cantato in modo suadente e morboso su un tappeto di tastiere veramente evocativo, intervallato da interventi chitarristici che in sede live cresceranno in durata ed intensità, avvicinando i suoni effettivamente a certe evocative divagazioni floydiane. Altri momenti interessanti sono rappresentati da “Nine cats”, un dolce brano acustico, onirico, accompagnato da un sintetizzatore che ricorda il Keith Emerson degli esordi negli EL&P e che trasporta in un mondo colorato, frequentato da geni folli come Syd Barret o i Beatles di “Magical Mystery Tour”. “Jupiter island” è invece una veloce traccia pop-psichedelica che si fa apprezzare per l’orecchiabilità e la lieve ironia, così come la strana e ritmica “And the swallow dance above the sun” o la tipicamente inglese “Linton Samuel Dawson”. Il resto del materiale alterna intermezzi strumentali d’atmosfera e canzoni che omaggiano costantemente il finire degli anni ’60 inglesi, ma senza catturare in modo particolare.
Considerando che questo è un disco di debutto, che a scriverlo e suonarlo è stata una sola persona e che la produzione è poco più che amatoriale, il bilancio generale non può che essere positivo ma con riserva, si attende cioè di assistere all’evoluzione di un progetto che è stato in grado di offrire spunti interessanti, ma che deve ancora ben sviluppare il suo potenziale. Col senno di poi si può mettere in prospettiva questo album e comprendere quanto sia stato fondamentale nella crescita artistica del progetto Porcupine Tree. Il disco, in conclusione, è consigliato a chi già conosce le cose più recenti del gruppo e vuole ben comprendere la sua evoluzione o ai rari amanti della psichedelia inglese vecchio stile.

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