Recensione: Order Of The Black

Di Alberto Biffi - 5 Settembre 2010 - 0:00
Order Of The Black
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Anno: 2010
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83

Icone del rock.

Slash con il suo cilindro e la sua Gibson, i suoi riccioli e l’immancabile sigaretta tra le labbra.
Lemmy, con la sua inconfondibile barba (il taglio, in particolare, è chiamato “friendly mutton chop”), il suo Rickenbacker, le sue giacche di foggia marziale, il collo proteso verso l’alto ed il microfono posizionato in modo singolare.
Angus Young, il “diavoletto” vestito da Gian Burrasca, la sua SG, il suo passo inconfondibile (a sua volta mutuato da Chuck Berry).

Zakk Wylde in ben 2 incarnazioni ha rappresentato una icona rock.
Prima, giovane “freak settantiano”, con i suoi pantaloni a zampa, i biondissimi capelli e i bicipiti in mostra, stretti da aderenti t-shirt.
Poi, irsuto incrocio tra un biker vichingo ed il più classico dei redneck della integralista e profonda America sudista.
Potremmo andare avanti citando altri musicisti (pochi ormai, purtroppo), tutti esempi di artisti dal forte carisma ed in via di estinzione, ma ci fermeremo qui per ora, perché è del barbuto ex chitarrista di Ozzy che parleremo, o meglio, dei suoi Black Label Society e della loro ultima fatica: “Order Of The Black”.

I recenti problemi di salute di Zakk e l’esclusione dall’attuale band di Ozzy, influenzano la nostra curiosità, davvero ansiosi di scoprire se il lungocrinito shredder, abbia riversato la sua rabbia, la sua delusione, il suo desiderio di rivalsa, nei solchi digitali di questo lavoro.
L’opening track “Crazy Horse” non da possibilità d’errori. Sono i BLS che abbiamo sempre ascoltato e conosciuto. Doppia cassa, chitarroni ribassati (in RE per la maggior parte dei brani, e per gli “addetti ai lavori”) riff “sabbathiani” accelerati e potenziati, classica mano di Zakk, pronta a far squillare e gridare la sua Gibson Bullseye con continui (e un pò stancanti) armonici artificiali.

Il secondo brano, è un incrocio tra Sabbath e Down. Si respira l’aria viziosa e “paludosa” dell’America del sud, con riff stoner e uno stacco centrale prelevato direttamente dai primi dischi del sabba nero e dalle mani di Iommi.
“Parade of Death” è un attacco all’arma bianca, tipicamente metal e dal riffing incessante e distruttivo.
Rallentamenti sempre più imparentati con il gruppo di Anselmo e con uno sludge metal d’impatto, rendono il pezzo più dinamico ed intrigante, con “quella” voce di Zakk, da sempre emulo del suo mentore, al punto di apparire come una versione maggiormente roca e “maschia” di quella del “mangiapipistrelli” più famoso del mondo.
Incredibile quanto l’esser stato “svezzato” dal madman abbia influenzato a tal punto la vita di un artista poliedrico e talentuoso come Zakk. Quasi avesse subito un’imprinting, la sua ammirazione e devozione per Ozzy e per i Sabs, trasuda da ogni nota suonata, da ogni vocalizzo e da ogni composizione.

La quarta traccia, “Darkest Days”, è una dolce ballata pianistica, in cui tra una Bud e l’altra, il berserker americano canta con infinita dolcezza, suggellando con un trascinante assolo, un brano davvero riuscito, ma ben lontano dall‘emozionale ed emozionante “In This River”.
Parlando di partiture soliste, non possiamo che cancellare ogni dubbio (se ma ce ne fossero ancora!) sulla prestazione maiuscola del virtuoso barbuto.
Assolo stupendi, viscerali e tecnicamente superbi, spazzano via ad ogni ascolto centinaia di presunti shredder e virtuosi dell’ultima ora. Zakk, al di là dei gusti e dell’opinabilità di alcuni suoi atteggiamenti (guardate su You Tube alcuni video, dove si allena in palestra bevendo birra, oppure, con la complicità di un altro energumeno, si scaglia su un tavolo di legno distruggendolo letteralmente !?!) era, è, e resta, un maestro dello strumento, sempre attento allo studio della chitarra ed alla pulizia delle sue mirabili esecuzioni.

È appunto con uno dei suoi assolo al fulmicotone che Zakk decide di aprire la quinta traccia, “Black Sunday”, fulgido esempio di up-tempo rock metal, in cui, nuovamente, riff potenti, solismi taglienti e ritmiche rocciose dominano la scena.
“Southern Dissolution” è un brano tritaossa, con pesantissime influenze stoner e l’ennesima, ottima prestazione vocale del leader della band.
“Time Waits For No One”, è un pezzo lento, melodico, pesantemente influenzato da Elton John (ma non dite a Zakk che l’ho scritto!), dove su un armonia pianistica, il biondo ex-ragazzo prodigio canta in modo convincente, per poi esibirsi in un liberatorio solo di chitarra elettrica.
“Goodspeed Hellbound” e “War Of Heaven”, ci riportano sulle ben poco rassicuranti rotaie di quel treno merci carico di metallo, chiamato BLS.
“Shallow Grave”, è la terza ballata di questo cd, ma non sbuffate, per questo lavoro Zakk ha pensato bene ad ogni dettaglio, quindi questo ennesimo break melodico non ci annoierà, nonostante la candidatura a potenziale deja-vu, ma ci stupirà grazie ad un arrangiamento che ci coglie di sorpresa, ricordandoci a tratti (soprattutto per una particolare progressione armonica) i Muse. Ottimo brano, decisamente uno dei migliori di questo “Order Of The Black”.

“Chupacabra” è un breve divertissement di Zakk, in cui si esibisce, per meno di un minuto, in un virtuoso brano strumentale dal flavour latino.
“Riders Of The Damned” è un episodio inconfondibilmente BLS style, con riff pesanti come pugni di un peso massimo, il fido scudiero Nick Catanese a potenziare ulteriormente il muro di suono e un’ottima sezione ritmica, motrice instancabile e precisa di questa macchina super collaudata.
Anche in questo brano nulla è lasciato al caso e l’approccio bonariamente ignorante e grezzo della band, è qui stemperato e reso più “colto”, grazie ad un’azzeccatissimo break centrale, dove pianoforte e archi esplodono in un tipico assolo di Zakk.
Ultimo brano ed ultima ballata (ancora?).
“January”, in poco più di due minuti, riesce ad addolcirci ed a placare la nostra rabbia vichinga, con la voce di Wylde, calda , maschia e melodiosa, a cullarci fino alla fine di questo cd decisamente ben riuscito.

Ragioniamo.
I pregi di questo cd: buona produzione, ottimo songwriting, prestazione eccelsa di Wylde, sia dietro il microfono che alla chitarra, band compatta e convincente. Brani brevi, dalla durata perfetta (quattro minuti in media), brevi quel tanto da non ripetersi e lunghi sufficientemente per dire tutto ciò che serve.
Energia sincera e pura che trasuda da ogni nota, denotando un divertimento ed una passione che sembra lontana a scemare, nonostante i decenni ormai trascorsi, da quando un giovane (e cotonatissimo) Wylde, si faceva conoscere come nuovo chitarrista di Ozzy Osbourne.

Difetti: un sospetto ormai consolidato si fa largo nelle nostre menti. I BLS hanno trovato la loro strada, e nonostante alcune innovazioni (molto poche invero), l’idea che ormai rappresentino una sorta di nuovi Motorhead o Ac/Dc, è sempre più consolidata.
Arriveremo a non avere più aspettative per i BLS? Sapremo ormai cosa aspettarci da ogni nuovo disco? Machismo esasperato, birra a fiumi, muro di marshall, brani sporchi e diretti, ipervitaminizzati figli nati dall’incestuoso amplesso tra Black Sabbath e i loro figli Down?

Ci piace pensare che non sia così…ma sarebbe così dannatamente rassicurante!
Da comprare, insieme alla birra ovviamente!

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Tracklist:

01.     Crazy Horse
02.     Overlord
03.     Parade Of The Dead
04.     Darkest Days
05.     Black Sunday
06.     Southern Dissolution
07.     Time Waits For No One
08.     Godspeed Hell Bound
09.     War Of Heaven
10.     Shallow Grave
11.     Chupacabra
12.     Riders Of The Damned
13.     January

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