Recensione: Origin

Di Daniele Balestrieri - 23 Dicembre 2006 - 0:00
Origin
Band: Borknagar
Etichetta:
Genere:
Anno: 2006
Nazione:
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70

Era inevitabile che la notizia di un album acustico da parte dei Borknagar avrebbe innescato tutta una serie di reazioni tra l’incredulo e l’impaziente; del resto, la lunga tradizione scandinava degli EP acustici ha abituato molto bene i vari fruitori di black, folk, viking, power, death e gothic, a tal punto che la mente associa con molta facilità la parola “album acustico” a “capolavoro”.

Una cosa è certa: una grande band che decide di produrre un album di questo tipo sicuramente ha alle spalle il progetto di allargare o rinnovare i propri orizzonti musicali (come nel caso di My Kantele degli Amorphis), oppure semplicemente di offrire una variante unica totalmente avulsa dal genere proposto usualmente (uno su tutti, Visor om Slutet dei Finntroll).
Ma cosa succede se una band come i Borknagar, nel cui flusso musicale già germinano i semi di decine di stili, decide di produrre un album scevro da ogni contaminazione elettrica? Sicuramente qualcosa di grande, perché grandi sono i nomi che prendono parte al progetto “Origin”.

Se si dovesse catalogare la musica sulla base di chi la realizza, colossi come i Finnugor o i Folkearth dovrebbero colpire duro come un meteorite, e invece la loro sorte, per i più, non è stata esattamente felice. Origin non è da meno: Vintersorg – la cui voce è ormai un monumento nazionale del metal, Øystein Brun – la cui arte con la chitarra ha costruito la felicità anche intellettuale di ben più di una band, l’eclettico Lars Nedland, l’eccellente Sareeta, fortunata violinista esplosa negli Ásmegin, Steiner Ofsdal, uno dei flautisti più rinomati della Norvegia, e Asgeir Mickelson – talentuoso batterista dalla versatilità non indifferente, tanto per citarne alcuni, hanno unito le proprie forze per generare un album che rompesse gli schemi del metal e affondasse i propri artigli nella tradizione folk più sopita e immaginifica.
Per i Borknagar del 2006, “Origin” non significa di certo Arcaic Course, ma una ricerca delle origini del sound che ha reso celebre la band in tutto il mondo. Origin è Epic, è Quintessence spogliato brutalmente delle sue vesti elettriche e lasciato a nudo in una condizione in cui emerge libero lo spirito loquace di Vintersorg e l’immaginazione forzatamente corale di Brun su un tappeto di chitarre classiche e tenui grovigli di flauti, violoncelli e violini, il tutto immerso in un’atmosfera trasognata e crepuscolare.
Tutte le canzoni presentano un avvicendarsi di atmosfere di colori tenui, quasi sbiaditi, costruiti ora dalla calda voce di Vintersorg e ora da lunghe sessioni strumentali che tutto riportano alla mente tranne il metal propriamente detto.

La composizione di ogni traccia si rifà spesso a diverse tradizioni stilistiche, ma il tutto è permeato da una forte vena progressiva che mi ha ricordato in più di un’occasione quel prog-rock anni ’70 fatto di pochi, ma incisivi, strumenti e da tutta una serie di voci che si sovrappongono l’una con l’altra fino a riportare la mente persino ai Queen o ai Jethro Tull – nomi che potrebbero sorprendere per la loro estemporaneità e scarsa consistenza con il genere proposto, ma che faranno sicuramente la felicità degli amanti del prog che non disdegneranno quest’album.
Proprio per questo Origin è un prodotto che rischia di essere un po’ troppo distante dalla sensibilità di chi si aspettava qualcosa di leggermente più coerente. Purtroppo invece la coerenza in Origin esiste, ma è una coerenza delle canzoni con loro stesse. L’album è omogeneo a tal punto che non esiste una canzone che più di tutta potrebbe trascinare l’ascolto delle altre. Tutto l’album è come vaporizzato su sonorità lente e decadenti, dalle quali emerge imperante la voce di Vintersorg, talmente dominante da risultare a tratti anche fastidiosa, insieme alla inconfondibile voce di un Nedland che immancabilmente riconduce il pensiero a Solefald o Ásmegin. Se proprio di voci bisogna parlare, c’è anche da dire che Vintersorg sembra aver trovato il proprio limite in questo album acustico, tanto che alcuni brani sembrano tirati un po’ oltre le sue capacità, e altri brani sembrano leggermente svogliati.

Fortunatamente la grande arte dei musicisti coinvolti eleva l’album indipendentemente dal gusto personale dell’ascoltatore: notevole è “White“, che si pregia di assoli apocalittici e di duetti di gran pregio; interessante è anche la ripresa di “Oceans Rise“, canzone che compirà 10 anni il prossimo anno e qui talmente stravolta da risultare praticamente irriconoscibile sia dall’originale di Arcaic Course e sia dalla precedente “Grains“, che inizia praticamente con lo stesso sinuoso brano di flauto.
L’album, in sostanza, si può definire un progetto “bello”. Bello sia fuori, grazie al fine artwork del digipak, e sia dentro, grazie a una produzione talmente cristallina che riesce a valorizzare anche il silenzio che preme contro gli strumenti spesso eterei e filiformi. Purtroppo per molti risulterà un album introspettivo, atmosferico, quasi ambientale, che non sferra mai il vero calcio d’inizio fino alla conclusiva, pensierosa “The Spirit of Nature“. Ci sono stati album molto più estremi in questo senso, Kveldssanger ne è un esempio lampante, tuttavi qui sembra mancare quella spontaneità quasi epica che ha reso tanto rivoluzionario l’esperimento acustico degli Ulver, altra grande band che in fatto di sperimentazioni, forse, non è seconda a nessuno.

Certamente ci sarà chi si lascerà trascinare da Origin a tal punto da considerarlo un capolavoro senza tempo, come accade per tutti gli album strutturati in modo tale da compiacere chiunque, dalla nonna novantenne alla quattordicenne con l’ipod ingombro di canzoni di Tiziano Ferro. L’arte compressa in questi 35 minuti è tanta, ma a mio giudizio è davvero troppo rarefatta, e non lascia in mano molto di concreto. Sinceramente mi aspettavo un album più coinvolgente, più denso, più variegato, e per questo dubito che avrà lunga durata nel mio lettore CD. Le poche idee depositate e ben distanziate nel percorso delle nove tracce non attirano l’attenzione più del necessario per godersi questo Origin più di quanto si godrebbe il rumore di una cascata di sottofondo durante una passeggiata in montagna. Affascinante, ricco di sensazioni, ma decisamente un po’ stentato. Dedicato a molti, ma non esattamente a tutti.

TRACKLIST:

1) Earth Imagery
2) Grains
3) Oceans Rise
4) Signs
5) White
6) Cynosure
7) Human Nature
8) Acclimation
9) The Spirit of Nature

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